Nei prossimi mesi capiremo quanto saranno gravi, ma intanto una cosa è certa: il fallimento della strategia “contagi-zero” a Shanghai (circa 544mila contagiati e 285 morti dal 1° marzo 2022) e l’insistenza della leadership di Pechino nel riproporla come strada maestra a livello nazionale non saranno senza conseguenze, politiche ed economiche.

Non sappiamo quali sarebbero stati gli effetti di una politica più rilassata. Il calcolo costi-benefici di Xi e compagni potrebbe anche essere corretto: con misure di contenimento meno rigide il virus si sarebbe diffuso a macchia d’olio in tutto il paese, devastando l’economia e producendo un’ecatombe. E tuttavia ciò rivela già due debolezze della Cina: quella della ricerca scientifica della seconda economia del pianeta, che non è riuscita a produrre vaccini all’altezza di quelli dei paesi avanzati, e quella del suo sistema sanitario nazionale, totalmente inadeguato a far fronte a un’epidemia.

Inoltre la leadership del partito – replicando lo schema seguito per la nuova via della Seta e il piano per la nuova manifattura “Made in China 2025” – con la strategia “contagi zero” ha accompagnato a politiche ambiziose (ipso facto dall’esito incerto) una narrazione trionfalistica che, nel caso della vittoria dichiarata nella “guerra popolare al coronavirus”, è stata addirittura inserita in quell’ideologia informale con la quale il Pcc “educa” la popolazione. Da quel momento – nella primavera del 2020 Xi dichiarò la vittoria della “guerra popolare contro il coronavirus” – Xi e compagni sono diventati prigionieri della loro stessa ideologia, che non aveva fatto i conti né con la variante Omicron, né con la gestione “liberal”, eterodossa, di una metropoli come Shanghai.

Ora il partito dovrà affrontare problemi politici importanti: come arginare lo scontento di una parte della popolazione per la gestione della pandemia, che a Shanghai si è manifestato in maniera drammatica; come “aggiustare” la narrazione ideologica approntata nei mesi scorsi; e le ripercussioni del caso Shanghai sul XX congresso (nell’autunno prossimo) al quale Xi chiederà un inedito terzo mandato a guidare il paese.

Li Qiang, il segretario del partito di Shanghai, era dato tra i favoriti per entrare nel Comitato permanente dell’Ufficio politico (i sette leader che governano di fatto il paese), ma l’imbarazzante performance della sua amministrazione potrebbe avergli fatto perdere il treno: ciò provocherebbe difficoltà ulteriori nella composizione di un puzzle che deve tenere conto di delicatissimi equilibri, non ultimo il fatto che la megalopoli degli affari è stata sempre rappresentata nel vertice. Un vertice che Xi potrebbe allargare (da sette a nove membri) nel tentativo di non scontentare nessuno in una fase in cui la gestione della quinta generazione di leader – a causa dell’epidemia e del rallentamento dell’economia – viene per la prima volta messa in discussione, con la richiesta di un cambio di passo.

Forse ancora più complicato sarà rimettere in moto l’economia. Sui dati del prossimo trimestre gli effetti delle chiusure si sentiranno in maniera pesante. La crescita cinese sta rallentando più del previsto. E un eventuale massiccio piano di stimolo avrebbe comunque effetti limitati se non verranno rimosse le principali limitazioni alla mobilità. Ma la scelta di Xi, che contro il Covid ha annunciato nei giorni scorsi misure sempre più “scientifiche”, potrebbe essere quella di non scegliere, provando a rimandare le decisioni più difficili a dopo il congresso, puntando tutto, nei prossimi mesi, sul mantenimento della stabilità sociale.

Crollano gli investimenti cinesi in Europa e Africa

Da un lato le restrizioni agli investimenti di Pechino varate dall’Ue e le tensioni geopolitiche con l’Europa; dall’altro il crescente indebitamento di molti paesi del continente, che ha fatto crollare i prestiti cinesi all’Africa. La tanto temuta “conquista cinese” del vecchio continente e del continente nero non c’è stata né ci sarà in un futuro prossimo, perché le priorità di Pechino si stanno ridefinendo alla luce degli sconvolgimenti causati dall’uno-due pandemia-guerra in Ucraina. I dati sul rallentamento dell’espansione degli investimenti esteri diretti e dei prestiti cinesi sono contenuti in due rapporti appena pubblicati, “Chinese Fdi in Europe 2021 update” di Merics e Rhodium Group, e “Chinese loans to Africa database” del Boston University Global Development Policy Center.

  • Il quadro nell’Ue…

«L’era dei massicci investimenti cinesi in Europa sembra finita per ora», afferma lo studio di Merics e Rhodium Group. Secondo la ricerca, gli investimenti cinesi nei 27 stati membri dell’Ue e nel Regno Unito nel 2021 sono aumentati del 33 per cento, a 10,6 miliardi di euro, da un minimo causato dalla pandemia di 7,9 miliardi di euro nel 2020. Ma il valore dell’anno scorso è il secondo più basso dal 2013, ed equivale a meno di un quarto del massimo (47 miliardi di euro) registrato nel 2016. Diversi fattori – alcuni dei quali strutturali – hanno contribuito al crollo: le nuove regole Ue di scrutinio degli investimenti in arrivo dall’estero; la restrizione all’uscita di capitali dalla Cina per privilegiare lo sviluppo interno; le rivalità geopolitiche; le chiusure anti-Covid che stanno isolando la Cina dal mondo.

  • … e in Africa

Nel 2020 i prestiti cinesi all’Africa sono diminuiti del 78 per cento, al livello più basso in più di un decennio, con appena undici accordi firmati per un valore complessivo di 1,9 miliardi di dollari. Nel 2019 la Cina aveva stretto con l’Africa 33 contratti di prestito per un valore di 8,3 miliardi di dollari. Nel caso africano la riduzione dei finanziamenti cinesi è stata accelerata dal Covid, che ha indebolito sia la disponibilità della Cina di prestare all’Africa, sia la capacità del continente di rimborsare i debiti.

In definitiva i due studi possono essere letti come un’ulteriore conferma di una tendenza sempre più chiara: nei prossimi anni la Cina si dedicherà ai suoi problemi e ai suoi squilibri interni molto più che a proiettare lontano dall’Asia le sue compagnie e i suoi capitali.

YUAN, di Lorenzo Riccardi

La guerra in Ucraina e il far East 

Le ripercussioni negative della guerra in Ucraina saranno più pesanti sulle economie asiatiche con scambi più massicci con i paesi in conflitto, ma si estenderanno in modo indiretto all’intera regione dell’estremo oriente e sulle relazioni economiche Europa-Asia.

Russia e Ucraina sono tra i principali produttori di materie prime, gas naturale e petrolio, oltre a rappresentare il 30 per cento delle esportazioni mondiali di grano. La Russia è il terzo maggior produttore di petrolio, il secondo esportatore di gas naturale e tra i primi produttori di acciaio e alluminio. L’Ucraina è uno dei primi produttori di mais, grano, barbabietola da zucchero, orzo, e soia. Le economie dei due paesi confinanti sono strategiche e interconnesse con molti paesi e regioni del mondo.

La Cina, in base ai dati ufficiali delle dogane, ha registrato un volume di scambi con la Russia per 147 miliardi di dollari nel 2021, con un incremento del 36 per cento su base annua, mentre gli scambi con l’Ucraina sono stati pari a 19 miliardi di dollari nel 2021, con un incremento pari al 30 per cento sul trade aggregato. Questi dati rappresentano percentuali minori rispetto agli scambi con i principali partner commerciali di Pechino, che sono la regione del sud est asiatico, con le economie dei dieci paesi membri dell’Asean, l’Unione europea e gli Stati Uniti.

Gli effetti immediati sull’economia potrebbero essere minori in relazione al fatto che il commercio con la Russia ammonta a meno dell’1 per cento del prodotto interno lordo. Tuttavia, i prezzi delle materie prime e l’indebolimento della domanda nei grandi mercati di esportazione rappresentano una sfida.

La posizione della Cina non è né di condanna né di sostegno verso la Russia. Ma Pechino si è espressa a gran voce contro le sanzioni, ritenendole inefficaci e dannose per l’economia nazionale e globale. Questa posizione è condivisa in quasi la totalità dell’Asia, con le eccezioni di Giappone, Corea del sud, Singapore e Taiwan, che sono stati inseriti da Mosca nella lista di paesi e territori “ostili” per aver aderito alle sanzioni contro la Russia.

Per il blocco dei paesi Asean il commercio con la Cina vale il 20 per cento del trade internazionale in base ai dati 2021, l’11 per cento quello con gli Stati Uniti e l’8 per cento quello con l’Unione europea. Il volume degli scambi con i paesi in guerra sarà fortemente danneggiato, ma tra le economie asiatiche solo Vietnam e Giappone hanno un surplus nella bilancia commerciale con Russia e Ucraina: pertanto diversi analisti valutano un possibile aumento dell’interazione economica intra-regionale nell’estremo oriente, dove la Cina consoliderebbe la propria leadership.

Attacco suicida in Pakistan, ucciso il direttore dell’Istituto Confucio

Un attentato rivendicato dall’Esercito di liberazione del Belucistan (Bla) ha ucciso martedì 26 aprile quattro persone in un minibus all’ingresso dell’Università di Karachi, in Pakistan. L’attentatrice suicida, confusa tra la folla di studenti che entrava e usciva dall’ateneo, si è fatta esplodere contro il pulmino azionando l’ordigno che nascondeva sotto il burqa. Tre le vittime cinesi, tra cui il direttore del locale Istituto Confucio, Huang Guiping.

  • Perché è importante

Secondo il leader del Movimento per la giustizia del Pakistan (Pti) al governo, Asad Umar, «siamo di fronte a un altro tentativo di far deragliare il Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec)», la rete di infrastrutture (oltre 60 miliardi di dollari di investimenti) che le compagnie di stato cinesi stanno costruendo nel “Paese dei puri”, tra cui l’oleodotto game changer che dal porto di Gwadar (nella provincia del Belucistan), attraversando da sud a nord il Pakistan, porterà il greggio mediorientale dal Mare arabico direttamente nel Xinjiang, bypassando il trasporto nelle petroliere attraverso l’Oceano indiano, lo Stretto di Malacca e il Mar cinese meridionale e orientale.

Il Cpec è il progetto simbolo della nuova via della Seta (Bri). In seguito alla scia di attacchi terroristici degli ultimi mesi, le aziende cinesi saranno costrette a rafforzare la protezione militare di tutte le opere in costruzione. In questa rivendicazione pubblicata su Twitter il Bla annuncia di aver creato una sezione speciale delle sue Brigate Majeed con il compito di attaccare gli interessi cinesi in Pakistan.

  • Il contesto

È la prima volta che il Bla – una formazione d’ispirazione marxista-leninista istituita con l’aiuto del Kgb e a lungo addestrata dai sovietici – colpisce interessi cinesi al di fuori della provincia per la quale rivendica l’indipendenza. Nel luglio 2021 nove cinesi erano stati uccisi in un attacco terroristico presso l’impianto idroelettrico in costruzione a Dasu rivendicato dagli islamisti di Tareek-e-Taliban Pakistan.

L’arida, montuosa e scarsamente abitata provincia del Belucistan è strategica non solo per il porto di Gwadar (non lontano dallo stretto di Hormuz) e per l’oleodotto in costruzione, ma anche per le maggiori riserve di gas naturale del Pakistan, racchiuse nel suo sottosuolo, oltre all’oro e al rame, che già vengono estratti dalle aziende cinesi. L’Esercito di liberazione del Belucistan fa parte di un ombrello di gruppi della guerriglia che contesta lo sfruttamento delle risorse locali mentre la provincia rimane una delle più povere del Pakistan, nonché le devastazioni ambientali provocate dai grandi progetti infrastrutturali. A questo link è possibile consultare uno studio dell’Università di Uppsala sui gruppi separatisti del Belucistan.

Consigli di lettura della settimana:

Per questa settimana è tutto. Per osservazioni, critiche e suggerimenti potete scrivermi a: exdir@cscc.it

Weilai vi invita a seguire il futuro della Cina su Domani, e vi dà appuntamento a giovedì prossimo.

A presto!

Michelangelo Cocco @classcharacters

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