Il mar Cinese meridionale costituisce da anni uno spazio marino sul quale si sovrappongono e contrappongono pretese di sovranità di vari stati. La Repubblica popolare cinese, il Vietnam, le Filippine, il Brunei, la Malesia (ma anche il già problematico Taiwan) rivendicano la propria sovranità su varie formazioni insulari e porzioni di mare in maniera sempre più aperta ed accesa.

Come risultato, l’equilibrio politico nell’area è diventato negli ultimi mesi sempre più incerto e critico, specialmente nella zona delle isole Spratly e Paracel.

Anche se le ostilità hanno radici nella metà dello scorso secolo e gli stati in questione si contendono le isole da decenni, recentemente la loro prassi è divenuta alquanto “fantasiosa” grazie al progresso tecnologico.

In particolare, la Cina e il Vietnam, negli ultimi tempi hanno incrementato la loro attività di “trasformazione” di scogli in isole. La prima, infatti, ha costruito numerose istallazioni artificiali, alcune delle quali militarizzate con porti, piste e altre infrastrutture, proprio sulla “linea dei nove punti” (The Nine–Dash Line), ribandendo le sue rivendicazioni di sovranità su ampi spazi marini del Brunei, Vietnam, Filippine e Malesia. Il secondo ha da poco ultimato un importante incremento dei lavori di dragaggio e scarico di materiale in molti dei suoi avamposti nell’area, creando circa 170 ettari di nuova terra sulle isole Spratly, proprio al fine di rafforzare in modo significativo le sue rivendicazioni.

La prassi cinese spaventa gli stati: le Filippine si dichiarano preoccupate per la violazione del lodo arbitrale del 2016 (che ha respinto le rivendicazioni cinesi) e allertano il personale militare, ma le tensioni sono tangibili anche con la Malesia e il Brunei. Infine, gli Stati Uniti hanno ripetutamente criticato tali attività e continuano ad opporsi alle rivendicazioni di sovranità sull’area attraverso le cosiddette “operazioni di libertà di navigazione”.

È chiaro che la rilevanza strategica dell’area è dovuta alle sue potenzialità economiche (sono ingenti le risorse viventi e non viventi presenti nella colonna d’acqua e nel fondale), ma anche (e oggi soprattutto) alla particolare posizione delle isole Spratly, a cavallo di una delle rotte marittime più trafficate del mondo e con un potenziale interesse militare, soprattutto in considerazione delle tensioni su Taiwan, potenzialmente in grado di innescare una guerra regionale.

La questione non si gioca solo sul piano strettamente politico ma anche su quello giuridico. Tutte queste condotte, infatti, hanno la finalità di trasformare piccole entità territoriali, assimilabili a isolotti o scogli in “isole” che, per il diritto internazionale, sono le sole in grado di avere una propria zona economica esclusiva e una piattaforma continentale (cioè complessivamente circa 370 km di spazio marino in più). Il dubbio è, infatti, che – nonostante l’operosità asiatica – la Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare del 1982 non consenta in nessun caso ad uno scoglio di “trasformarsi” in isola, soprattutto ai fini della definizione di questi spazi marini.

Che cos’è un’isola?

(AP Photo/Aaron Favila)

La Convenzione, infatti, identifica l’isola come una distesa naturale di terra circondata dalle acque, che rimane al di sopra del livello del mare ad alta marea. Una definizione piuttosto vaga, che sembra attribuire lo status giuridico di “isola” a tutte le formazioni insulari, indipendentemente dalla loro dimensione, dalle loro caratteristiche geologiche o dal tipo di vita che esse possono consentire. Attorno a questa formazione è previsto che possano essere delimitati il mare territoriale, la zona contigua, la zona economica esclusiva e la piattaforma continentale. Tuttavia, la Convenzione chiarisce, inoltre, che gli scogli – che non si prestano all’insediamento umano né hanno una vita economica autonoma – non possono possedere né la zona economica esclusiva né la piattaforma continentale. Ecco la necessità di trasformare uno scoglio in isola.

La partita asiatica, dunque, si gioca sul determinare se sia possibile trasformare uno scoglio in isola non solo in fatto ma anche in diritto, al fine di rafforzare le proprie pretese sugli spazi marini adiacenti e “guadagnare più mare”.

Una lettura attenta della Convenzione dimostra, in realtà, l’esistenza di due categorie di “scogli”: quelli che non possono sostenere abitazione umana o una vita economica autonoma e quelli che possono sostenere una delle due menzionate condizioni o entrambe. Secondo alcuni, anche un faro o altri aiuti alla navigazione, costruiti su uno scoglio sarebbero in grado di dimostrare una vita economica autonoma; secondo altri, invece, ciò non escluderebbe la necessità di quei territori di avere un sostegno esterno. Così, per alcuni, la sola presenza di personale addetto al faro soddisferebbe il requisito dell’abitabilità, mentre altri respingono nettamente tale posizione. La maggior parte della dottrina però è concorde nell’attribuire rilevanza giuridica solo a quelle entità in grado di sostenere, senza alcun aiuto esterno e sulla base delle proprie risorse naturali, una comunità umana stabile.

Ne consegue che l’intervento umano non appare allo stato attuale idoneo a mutare il regime giuridico di un atollo-scoglio in favore di quello riservato alle isole. È escluso, infatti, categoricamente che questo possa avere come effetto quello della “costruzione” dell’isola o della trasformazione di uno scoglio in isola. In questo caso, la mancanza di un processo naturale di crescita, nonostante l’uso di materiali naturali, condurrebbe ad escludere l’analogia con le terre continentali. In altri termini, seppure lo scoglio diventasse un’isola grazie al progresso tecnologico, quest’ultima non diverrebbe automaticamente tale ai fini giuridici e soprattutto ai fini della delimitazione dei propri spazi marini.

L’interesse degli stati a ottenere un’espansione quantitativa e qualitativa dei propri poteri sovrani ma funzionali sulle zone marittime è oggi sempre più strettamente legato al progresso scientifico e tecnologico, che consente loro di sfruttare le risorse viventi e non viventi contenute nei diversi spazi marini. Questa possibilità ha indotto e induce ancora molti Stati costieri ad estendere la propria giurisdizione sulle acque sempre più al largo, al fine di realizzare una sorta di “territorializzazione” del mare. Il progresso tecnologico ha, inoltre, reso possibile la creazione di impianti artificiali molto simili alle isole naturali che rendono difficile individuare il confine tra naturale e artificiale.

Zone economiche

La questione relativa alle isole Spratly, così come le altre dispute sulle delimitazioni marittime in Asia, mostrano le incertezze della prassi degli stati su questo tema. Tuttavia, il diritto del mare non consente attualmente a uno soglio – nonostante questo sia considerato, in senso geologico, una specie di isola – di generare una zona economica esclusiva o una piattaforma continentale propria, se non si presta all’insediamento umano o ha una vita economica autonoma. Allo stesso modo, le isole artificiali, le istallazioni e le strutture create dall’uomo, anche se al di sopra dell’acqua durante l’alta marea, non possono essere considerato isole dal punto di vista giuridico e, quindi, non possono avere né acque territoriali, né zona economica esclusiva, né piattaforma continentale.

Pertanto, gli sforzi compiuti non solo da Cina e Vietnam ma anche da altri stati asiatici di estendere l’ampiezza delle formazioni insulari, così come quelli di dimostrare la presenza di insediamenti umani o l’esistenza di una vita economica autonoma su quelle entità territoriali, che per il diritto internazionali restano scogli, appaiono al momento insufficienti a garantire un mutamento di regime in favore di quello previsto dalla Convenzione per le isole.

D’altra parte, secondo il Tribunale internazionale del mare, l’istituzione della zona economica esclusiva intorno a scogli e piccole isole non apparirebbe di alcuna utilità e sarebbe contraria al diritto internazionale. Basterà questo a fermare il conflitto?

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