Come in occasione di ogni consesso del Partito comunista, l’annuncio, ufficializzato questa settimana dall’agenzia Xinhua, della convocazione della VI sessione plenaria (plenum) del XIX Comitato centrale ha lasciato indifferenti la maggior parte dei cinesi.

Per i non iscritti al partito-leviatano, la Risoluzione sulle grandi conquiste e l’esperienza storica dei cento anni d’imprese del partito che verrà discussa nella Grande sala del popolo di Pechino dall’8 all’11 novembre prossimo è una questione di lana caprina. Eppure il documento che uscirà dalla riunione della leadership allargata (370 membri) ridefinirà la «corretta interpretazione» dell’epopea del Pcc (e, forse, di alcune drammatiche divisioni del passato), secondo la quale verranno riscritti i manuali scolastici, alla quale dovranno attenersi docenti e ricercatori, e dalla quale nessun organo d’informazione potrà deviare.

Da quando – il 1° luglio 1921 – Mao e compagni hanno fondato quello che i cinesi chiamano gòngchăngdăng, sono state approvate solo due risoluzioni sulla sua storia: la prima, relativa al periodo 1921-1945, la seconda a quello 1949-1981.

La Risoluzione su alcune questioni della storia del nostro partito – varata il 20 aprile 1945 dal VII plenum del VI Comitato centrale – ha sancito, attraverso un esame degli errori compiuti fino alla Lunga marcia (dagli avversari di Mao, ndr), l’emancipazione del Pcc dalla tutela sovietica e la definitiva affermazione della linea del Grande timoniere: guerriglia rurale e unità del partito per la conquista del potere.

La svolta di Deng

La Risoluzione su alcune questioni della storia del nostro partito dalla fondazione della Repubblica popolare è stata promulgata il 27 giugno 1981 dal sesto plenum dell’XI Comitato centrale. Con quel documento la Cina si è lasciata alle spalle il maoismo, stigmatizzando il Grande balzo in avanti, la Rivoluzione culturale e altri «eccessi» di Mao, spianando la strada alle riforme di mercato e alla crescita ininterrotta di quella che è diventata la seconda economia del pianeta.

Mao e compagni sono stati accusati di «conoscenza inadeguata delle leggi dello sviluppo economico e delle condizioni economiche di base della Cina», di «arroganza», «soggettivismo», «arbitrarietà» (per citare solo alcuni dei passaggi più impietosi).

Sotto la supervisione di Deng e del leader riformista Hu Yaobang, alla stesura del testo lavorarono per oltre un anno Hu Qiaomu e Deng Liqun, due alti funzionari del dipartimento di propaganda fedeli a Deng che in passato erano stati molto vicini a Mao.

La seconda risoluzione sulla storia del partito ha potuto vedere la luce solo dopo la vittoria di Deng contro Hua Guofeng, il delfino di Mao fautore di una linea di continuità. Ciononostante si è sostenuto che quel documento non abbia fatto fino in fondo i conti con il maoismo, che avrebbe valutato «per il 70 per cento positivamente e per il 30 per cento negativamente».

La realtà è che Mao incarna tuttora la conquista dell’indipendenza dagli stranieri e l’unità nazionale: un mito che non può essere demolito, anche perché, a differenza dell’Unione sovietica, la Cina non ha un Lenin per sostituire e far dimenticare Stalin.

Insomma la risoluzione del 1981, per motivi ideologici e per la presenza ancora massiccia di maoisti nel partito, non poteva spingersi oltre nella condanna di Mao. In definitiva, ha messo al bando il culto della personalità e archiviato la lotta di classe a tutto vantaggio delle riforme di mercato. la conseguenza è stata una de-politicizzazione del partito, che da allora si è concentrato sempre più sulla performance economica.

La “terza rivoluzione”

Quarant’anni dopo, la Risoluzione sulle grandi conquiste e l’esperienza storica dei cento anni d’imprese del partito fotograferà un altro passaggio epocale, che la sinologa statunitense Elizabeth Economy ha chiamato «terza rivoluzione».

Dalle riforme non si torna indietro, ripete il partito. Ma negli ultimi nove anni, con Xi Jinping al comando, il Pcc ha riconquistato lo spazio perduto nella società – dove i giovani vengono indottrinati con un pot-pourri ideologico fatto di confucianesimo, marxismo e nazionalismo –, e ha accentrato un gran quantità di poteri nella sua leadership, affidandosi al vecchio «centralismo democratico» dopo decenni di leadership collettiva.

Coerentemente con questa impostazione c’è da attendersi una revisione dei giudizi più netti sull’ultimo ventennio maoista, una parziale “riabilitazione” che si è già affacciata nei media e nei libri di scuola.

Negli ultimi mesi l’economia cinese è stata scossa da una serie di iniziative regolatorie senza precedenti nei confronti delle società hi-tech (vedi il caso Alibaba) e di quelle immobiliari (vedi crisi Evergrande), che assieme producono i due terzi del Pil nazionale. Certamente all’interno del partito le politiche anti monopolio e il controllo governativo sulle grandi compagnie private hanno irritato e continueranno a contrariare i “riformisti”, che puntano ad allargare lo spazio per il mercato.

Bavaglio ai riformisti

Il governo ha appena pubblicato una lista di 1.300 tra media, agenzie governative e social media dalla quale i portali internet possono attingere per pubblicare notizie. Nell’elenco non figura il quindicinale Caixin che – dal momento che in Cina le notizie viaggiano attraverso app di aggregatori e portali – sarà, di fatto, silenziato.

Il giornale economico riformista è diretto da Hu Shuli, autorevole giornalista d’inchiesta protégé del vicepresidente Wang Qishan. Qualche giorno fa la testata ha pubblicato nella sua sezione culinaria quella che molti hanno letto come una metafora-atto d’accusa contro la leadership: «Se la testa di maiale è ben cotta, è deliziosa. Ma se la testa di maiale non è rispettata, ciò ha a che fare col modo di pensare della gente. La gente comune non pensa di stabilire a tavola una relazione strategica con una testa di maiale che gode di cattiva fama». «Testa di maiale» è uno dei soprannomi che i suoi detrattori danno al segretario generale.

Oltre a essere legato a Hu, Wang avrebbe interessi in una serie di grandi compagnie recentemente colpite dal giro di vite del governo, tra le quali il colosso finanziario Hna.

Da mesi si rincorrono le voci secondo le quali Wang sarebbe caduto in disgrazia. Il settantatreenne ha guidato dal 2012 al 2017 la Commissione centrale di vigilanza, l’organismo del partito che conduce la campagna anti-corruzione permanente di Xi, di cui conosce tutti i nemici e anche diversi segreti.

Wang – assieme al vice premier Liu He – è anche tra i leader del Pcc che hanno maggior consuetudine con gli americani (a causa delle tensioni con Washington, da un anno, l’ambasciata statunitense a Pechino è senza ambasciatore e i rapporti Cina-Usa sono ai minimi termini).

A remare contro Xi sarebbe anche l’ex capo dei sevizi di sicurezza Zeng Qingong, legato alla fazione di Shanghai che fa capo all’ex segretario generale Jiang Zemin. Anche in questo caso come “prova” del presunto scontro in atto i retroscenisti di Hong Kong citano gli interessi di Zeng in una serie di grandi compagnie, tra cui l’immobiliare Fantasia, a rischio default dopo le ultime misure governative.

Siamo di fronte a una lotta interna alla leadership nella quale questioni di linea si intrecciano e interessi economici? Xi, che ha il controllo “assoluto” dell’esercito, sta continuando le purghe di alti funzionari della polizia e dei servizi, in parte ancora legati a Zhou Yongkang, l’ex membro del Comitato permanente dell’Ufficio politico ed ex capo della sicurezza interna (nonché di una vasta rete di interessi petroliferi) condannato nel 2015 all’ergastolo per “corruzione”.

Nei giorni scorsi media semi ufficiali hanno riferito di manovre «minacciose e sleali» contro uno dei massimi leader del partito (un probabile riferimento a Xi) che alcuni hanno tradotto come mosse di Wang e Zeng per contrastare il presidente. Un’impresa ardua da parte di due alti funzionari che non fanno parte dell’Ufficio politico, uno dei quali deve proprio a Xi il posto di vicepresidente.

Sia come sia, quando il Comitato centrale avrà approvato la Risoluzione sulle grandi conquiste e l’esperienza storica dei cento anni d’imprese del partito, Xi Jinping sarà equiparato a tutti gli effetti a Mao e Deng, a un anno dal XX Congresso nazionale, al quale chiederà un inedito terzo mandato per guidare la Cina.

Nei prossimi mesi potremo capire se in un contesto interno e internazionale che sta complicando le ambizioni cinesi, nel partito c’è davvero qualcuno che ha la volontà e la forza per limitare lo strapotere di Xi.

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