Il vento antisistema e del “tutti a casa” soffia forte anche nel più conservatore e bloccato dei paesi dell’America Latina, la Colombia del bipartitismo moderato e dell’allineamento indiscusso agli Stati Uniti.

Se il passaggio al secondo turno con oltre il 40 per cento dei voti di Gustavo Petro, leader della sinistra, è la novità più evidente, l’identità del suo sfidante è la vera sorpresa del voto di domenica. Al secondo posto c’è un ingegnere di 77 anni, Rodolfo Hernández, che ha raccolto il 28 per cento alla testa di un movimento monotematico, la lotta alla corruzione e la gogna ai ladroni, facendosi largo con una campagna giovanilistica e a tratti sprezzante del ridicolo, compresi i suoi balletti su TikTok.

Questo a dire che l’unico candidato dell’establishment, il moderato Federico Gutiérrez, è rimasto fuori dalla contesa – il ballottaggio sarà il 19 giugno – sotterrando due secoli di storia politica colombiana, dove le presidenziali erano un affare di due partiti e un manipolo di famiglie potenti.

Verso il voto finale

Secondo la tradizione della Colombia, è la sua chiave di lettura, se la vedranno in finale due populisti: Petro è un pericolo con il suo passato da guerrigliero e le (ex) simpatie chaviste, Hernández un salto nel buio per inesperienza. La destra comunque si è affrettata a far convergere su quest'ultimo i suoi voti al ballottaggio, esplicitando quindi che la novità epocale resta (o meglio resterebbe) Gustavo Petro.

Nella marea di protesta nelle urne che ormai è fotocopia in ogni angolo dell’Occidente, la Colombia aggiunge qualcosa di unico. La sinistra è a un passo dal potere in un grande paese dell’America Latina dove non ha mai vinto, e dove le istanze di cambiamento radicale sono state affidate per decenni alle armi, quelle di una guerriglia fuori dal tempo e inquinata dai proventi del traffico di coca.

L’ex guerrigliero

Non è quindi un caso che Petro stia riuscendo nell’impresa dopo che il principale gruppo armato ha smobilitato il trattato di pace stato-Farc è del 2016, mettendo fine alla più lunga e anacronistica guerra interna del pianeta. Portando alla presidenza addirittura un ex guerrigliero come Petro, lo è stato in gioventù ma senza macchiarsi con il sangue, i colombiani metterebbero definitivamente una pietra su questa anomalia.

La giustizia sociale in uno dei paesi più diseguali del mondo, con un economia solida ma il 50 per cento di miserabili, esce finalmente dalle pagine della cronaca nera ed entra tra i temi della politica. Petro vuole più tasse per i ricchi, una revisione dei trattati da semicolonia con gli Stati Uniti, un passaggio verso un economia verde e meno legata alle commodities. Non ci sono dubbi che la politica tradizionale, rappresentata dal presidente uscente Ivan Duque e dagli uomini forti suoi predecessori come Alvaro Uribe e Juan Manuel Santos, tenterà di arginare Petro facendo convergere i voti sul male minore, il rivale Hernández.

Le tre settimane di campagna fino al ballottaggio saranno assai dure, ma difficilmente la vecchia carta della paura del comunismo potrà risultare determinante. Petro alla fine è una vecchia volpe della politica, è stato candidato presidenziale due volte, a lungo senatore, è stato un buon sindaco di Bogotà e dopo il tracollo economico e sociale venezuelano ai suoi confini, con la conseguenza di tre milioni di rifugiati in casa propria, si guarderà bene di seguire le follie del chavismo o cavalcare le parole d’ordine dell’antimperialismo novecentesco. Né i suoi avversari hanno potuto molto su questo versante della battaglia politica, Petro è stato affrontato correttamente per le sue idee attuali, non quelle di quando aveva 20 anni. È vero però che i rapporti con gli Stati Uniti hanno bisogno di una rinfrescata.

Il problema endemico del narcotraffico

La Colombia è tuttora il più grande fornitore di cocaina del pianeta, girano nel paese più soldi sporchi che ai tempi di Pablo Escobar e la politica di repressione è sempre la stessa: farsi aiutare con le armi e le tecnologie dagli americani e consegnar loro in manette i grandi trafficanti.

Metodo che finora non ha portato alcun risultato, né ai colombiani né agli Usa. Alla sconfitta di ogni cartello (che sia di matrice guerrigliera o paramilitare) ne nasce un altro, stracolmo di dollari e in grado di infiltrare la politica.

Se gli occhi del mondo guardano alla Colombia con il solito binomio violenza-coca, all'interno l'elettorato ormai chiede altro. Vero che c'è da smantellare l'ultimo gruppo guerrigliero organizzato (l’Eln) e fermare la ricostruzione delle Farc e delle milizie paramilitari, ma il voto di domenica scorsa è soprattutto figlio delle proteste sociali degli ultimi anni.

Così come avvenuto in Cile con l’outsider Gabriel Boric, la voglia di cambiamento chiede di incidere sui problemi strutturali di società ancora post-coloniali, dove salute e scuola di qualità sono precluse alla stragrande maggioranza della popolazione, non esiste quasi mobilità sociale, il razzismo è una realtà del presente e gli anni del liberismo in economia hanno dato impulso alla crescita ma portato benefici solo a una piccola parte della società. Sotto accusa è il cosiddetto modello estrattivista, basato solo sui prezzi internazionali delle commodities (decisi altrove) e sulla capacità di esportazione. Ma quello alternativo è ancora tutto da inventare.

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