«A nessuno importa di noi, moriremo lentamente dalla storia», dice piangendo una ragazza afghana in un video, nel giorno dell’entrata dei talebani a Kabul. Ha 23 anni, non conosce il burqa, ma conosce la storia del suo paese. Sa cosa la potrebbe aspettare.

Dal ritiro dell’esercito statunitense all’ascesa dei talebani (che già occupavano molte regioni), e la proclamazione dell’Emirato islamico, sono passati pochi giorni, ma sufficienti a portare il terrore negli animi delle donne afghane.

L’Afghanistan è ancora “il paese peggiore per nascere donna”, quello dei matrimoni forzati e dei delitti d’onore, quello in cui le bambine che vanno a scuola sono minacciate o possono essere avvelenate, quello in cui qualsiasi azione, senza il consenso di un maschio della famiglia, non è possibile. Dove le donne non esistono. Dal 2001, però, almeno nei grandi centri, piccole conquiste sono state fatte: lavoro, voto e istruzione dove possibile. Meno di una anno fa il diritto di vedere il loro nome stampato sui documenti di identità dei figli. Ora si rischia di tornare indietro e saranno le donne a pagare il prezzo più alto.

«Abbiamo dovuto oscurare il sito perché siamo sotto controllo già da tempo. Il nostro staff, composto soprattutto da donne, è nascosto», racconta Flavia Mariani di Nova Onlus. «A essere in grave pericolo sono le giovani donne e quelle sole che potrebbero essere rapite come bottino di guerra. Rischiano stupri, violenze e la morte.

I raid armati porta a porta sono incessanti, i talebani cercano di capire chi ha collaborato con ong e associazioni.

Di donne ormai per le strade di Kabul non ce n’è più».

Pochi giorni fa, vicino a Mazar-i Sharif, nel nord del paese, ne hanno uccise 15 che lavoravano per ong straniere per i diritti delle donne.

I rientri

L’associazione è in contatto con la Farnesina per organizzare i rientri, ma le famiglie sono decine: «Prima cercano di far scappare le figlie femmine, molte di loro sono laureate, insegnano alle coetanee attraverso corsi online che raggiungo le province, totalmente isolate».

Nova Onlus ha aperto il suo ufficio a Kabul nel 2014 portando avanti progetti professionali e di scolarizzazione, lavorando anche con bambini con disabilità fisiche e mentali. Sono stati i primi a creare un servizio navetta di autiste donne, per le donne, riconosciuto dal ministero delle Donne e in accordo con la sharia: «Sono le uniche a guidare a livello professionale, sono conosciute ed esposte, per questo vorremmo portarle in Italia, ma per ora è impossibile», racconta Arianna Briganti, vicepresidente che si trova a Tirana.

«I nostri uffici ora sono chiusi come quelli delle altre organizzazioni e abbiamo distrutto tutti i documenti, non vogliamo che accedano ai dati. Anche se arrivano segni di apertura da parte dei Talebani, l’esperienza ci suggerisce di non fidarci. I nostri collaboratori locali temono rappresaglie: stilano liste di donne non sposate o appartenenti a minoranze, un segnale chiaro».

L’immagine presentabile

I talebani promettono un’amnistia e invitano le donne a entrare nel governo, sempre secondo le regole della sharia: «L’Emirato islamico non vuole che le donne siano vittime», ha affermato Enamullah Samangani, membro della commissione Cultura degli insorti, all’Associated Press, ma le immagini dicono altro e ricordano quelle di 25 anni fa, quando per la prima volta i Talebani entrarono a Kabul: non ci sono donne per le strade, non si sono viste neanche tentare la fuga all’aeroporto della città. Sono in molti a chiedere corridoi umanitari e protezione per quanti vogliono fuggire.

Le giornaliste televisive, dopo qualche giorno di conduzione maschile, ricompaiono sui canali: si cerca di trasmettere all’estero una nuova linea, più soft. Ma il terrore resta, le ragazze delle ong stanno nascoste in casa da giorni, non aprono a nessuno, sanno che i talebani, che oggi si dicono restauratori e non jihadisti, con loro getteranno questa finta maschera di clemenza. E alcune fonti dicono che le liste di chi ha collaborato con forze straniere già esistono, aspettano solo di essere usate.

«Ora che i talebani hanno preso il controllo di Kabul, è iniziato un nuovo regno del terrore. Per le donne e le ragazze afghane, questo significa oppressione sistematica e brutale in tutti gli aspetti della vita – ha detto Evelyn Regner, presidente della commissione per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere del parlamento europeo – nelle aree controllate dai talebani, le università femminili sono state chiuse, negano alle ragazze l’accesso all’istruzione e le donne vengono vendute come schiave del sesso».

L’incertezza è tanta, ma c’è chi non smette di andare avanti. «Da qualche giorno abbiamo meno personale che viene e molte meno pazienti, sono reazioni legate alla paura più che ad azioni concrete per ora». A parlare è Raffaella Baiocchi, responsabile del centro maternità di Anabah di Emergency. Si trova nella Valle del Panshir, nel nord dell’Afghanistan. «Sulle strade, ai checkpoint governativi si sono sostituiti quelli talebani. Per ora lasciano passare». Anche a Kabul, dal Centro chirurgico per vittime di guerra la situazione è simile. Dottoresse e operatrici si coprono maggiormente per timore. Gli ospedali sono luoghi relativamente sicuri, ma è ancora nitido il ricordo dell’attacco terroristico, nel maggio 2020, al reparto maternità dell’ospedale di Medici senza frontiere a Kabul, costato la vita a 24 persone tra cui madri, gestanti e neonati.

Il centro maternità è unico nel paese, dal 2003, quando è stato inaugurato a oggi, è passato da 400 parti all’anno a 7mila. In un paese dove la gravidanza è una questione domestica e c’è uno dei più alti tassi di mortalità infantile e materna al mondo, l’assistenza fornita è fondamentale. Baiocchi racconta della fondazione e ricorda l’incontro tra il generale Aḥmad Shah Massoud, guerriero del Fronte unito contro i talebani, ucciso in un attacco terroristico nel 2001, e Gino Strada: «”Non concertatevi sul burqa, concentratevi sulle possibilità”, spiegò il guerrigliero a Strada, e così gli venne l’idea di un posto per le donne».

Assistenza medica

Un punto di riferimento non solo per i villaggi circostanti ma per tutto il paese: «Solo il 30 per cento delle nostre pazienti risiede qui, alcune fanno viaggi della speranza dall’altra parte del paese perché sanno che saranno curate», spiega Baiocchi. La quasi totalità del personale è donna si offrono le cure prenatali, parto e post partum, sia a madri che neonati, ci si occupa di salute riproduttiva della donna, e c’è un ambulatorio ginecologico: «Abbiamo avuto un’attività in costante incremento, dall’era post talebana: siamo passati ad arruolare giovani ragazze volenterose, ad avere uno staff diplomato e con alte competenze. Abbiamo visto fiorire questa generazione di ragazze».

Una generazione che, considerando che il 54,4 per cento della popolazione afghana ha meno di 20 anni, non ha conosciuto il fondamentalismo talebano. Oggi molte sono dottoresse, da quando nel 2011 il centro è stato riconosciuto dal ministero della Salute afghano come specializzazione.

«Non abbiamo ospedali, per questo siamo scomode per i talebani. Lavoriamo per la libertà delle donne», spiega Silvia Redigolo, di Pangea. «A Kabul abbiamo uno staff che ha lavorato con coraggio per l’empowerment femminile». La onlus opera nel paese dal 2003 in diversi quartieri della capitale, ha collaboratrici tra i 25 e i 45 anni, ora barricate in casa e che non è possibile raggiungere telefonicamente: un numero estero in rubrica potrebbe metterle in serio pericolo. Pangea favorisce progetti di formazione, alfabetizzazione, igiene e salute riproduttiva e distribuendo microcrediti per attività imprenditoriali: «In questi anni hanno aperto varie attività: sarte, panificatrici, macellaie. Sono state 5mila le donne coinvolte: sono creative, conoscono i loro diritti. Anni fa dicevano “io non esisto”, ora “sono un’imprenditrice, ho un conto in banca, ho mandato i figli all’università”».

Anche negli uffici di Pangea i raccoglitori sono stati dati alle fiamme: «Abbiamo colleghe Hazara che rischiano più di tutte». Quella Hazara è una delle minoranze del paese da sempre perseguitata e che sta organizzando una sorta di resistenza in più di una provincia. Salima Mazari, la governatrice Hazara del distretto di Charkint della provincia di Balkh, è stata catturata dai Talebani, imprigionata in un luogo sconosciuto.

Le minoranze

Di fianco al lavoro delle associazioni da sempre clandestinamente gruppi di femministe e attiviste afghane sostengono le donne: sono molto combattive e anche messe alle strette continuano a lavorare, nonostante la guerra, la corruzione diffusa e enormi problemi di sicurezza interna. Rawa, l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan, è una di queste, attiva fin dal colpo di stato sovietico del 1978. «Anche noi abbiamo molte Michelle Obama, donne forti come Merkel, la sharia le soffoca», ripete la ragazza del video in lacrime. La paura più grande è che i riflettori si possano spegnere, e su di loro calare ancora una volta l’oscurità.

Il popolo afghano negli ultimi quaranta anni ha vissuto sofferenze inimmaginabili. Solo nel 2021 circa 550mila persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case. Sono donne e bambini a pagare il prezzo più alto. Unhcr ed Emergency sono ancora in Afghanistan per aiutarli. Ognuno può dare il proprio contributo con una donazione, bastano pochi click.
Per donare a Unhcr: dona.unhcr.it/campagna/afghanistan
Per donare a Emergency: sostieni.emergency.it/dona-ora

 

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