La sentenza dell’Aia è arrivata come uno spartiacque: la Corte internazionale di giustizia ha accertato che Israele non ha fornito prove sufficienti per dimostrare un’infiltrazione sistemica di Hamas nell’Unrwa.

Non c’è collegamento accertato, non c’è contiguità provata: c’è invece l’obbligo di permettere all’agenzia delle Nazioni Unite di continuare a operare a Gaza come «fornitore indispensabile di aiuti umanitari».

Queste parole rimodellano retroattivamente l’intero impianto politico e mediatico che, in Italia, aveva trattato l’Unrwa come struttura collusa, anticipando un verdetto che ora risulta inesistente. L’effetto è una frattura netta: tra ciò che è stato raccontato e ciò che oggi appare privo di fondamento.

La propaganda del governo

Gennaio 2024. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani annuncia la sospensione immediata dei finanziamenti all’Unrwa dopo alcune accuse informali provenienti da fonti israeliane, secondo cui alcuni dipendenti avrebbero avuto un ruolo negli attacchi del 7 ottobre. Non esiste un’indagine internazionale, non esiste un rapporto ufficiale, non è stato attivato alcun meccanismo giuridico di verifica.

Eppure, il governo agisce come se l’infiltrazione fosse un fatto accertato, trasformando ciò che era un sospetto individuale in un atto d’accusa contro un’intera struttura umanitaria. Il ministro presenta la decisione come gesto di responsabilità internazionale, mentre di fatto si assume come pregiudizialmente credibile l’ipotesi di un’agenzia Onu contaminata.

Nel maggio successivo, dopo la revisione indipendente guidata da Catherine Colonna che non rileva prove di complicità strutturale, i fondi vengono parzialmente ripristinati, senza che la narrazione politica cambi. Nel febbraio 2025 Tajani arriva a dichiarare che alcune sedi dell’Unrwa sarebbero state usate come luoghi di detenzione per ostaggi israeliani: un’accusa grave, confermata solo a livello retorico e ora smentita dalla Corte.

La postura del governo viene rafforzata da Matteo Salvini, che trasforma il tema in un braccio di ferro identitario: difendere l’Unrwa diventa, secondo una precisa lettura politica, un segnale di ambiguità verso Hamas.

Nel parlamento, il senatore di Fratelli d’Italia Giulio Terzi organizza eventi in cui organizzazioni impegnate da anni nell’attaccare l’agenzia vengono presentate come fonti certe, contribuendo a legittimare l’idea che l’Unrwa sia una struttura permeabile al terrorismo.

Una parte della stampa accoglie e rilancia questa cornice: non più accuse da verificare, ma una verità operativa da cui discende un imperativo politico. La campagna di sospetto diventa autoalimentata: la politica giustifica le proprie decisioni appellandosi a una copertura mediatica che proprio quelle decisioni ha contribuito a generare, in un circuito di legittimazione circolare.

In pochi giorni, l’agenzia diventa per ampi settori dell’opinione pubblica un apparato “contiguo” all’estremismo armato. Chi invita alla prudenza viene trattato come complice della dissimulazione o peggio come “amico di Hamas”. Il sospetto diventa certezza narrativa, e la prova non serve più.

Prima il Rapporto Colonna dell’aprile 2024, poi l’indagine dell’Ufficio di supervisione interna dell’Onu nell’agosto dello stesso anno avevano già ridimensionato drasticamente le accuse. Ma è la Corte internazionale di giustizia a chiudere la questione: nessuna prova di una collusione strutturale, nessuna base legale per interrompere la cooperazione, obbligo di garantire pieno accesso umanitario. L’Unrwa non è definita un “rischio”, ma una struttura senza alternative praticabili per la popolazione civile di Gaza.

Il giudizio internazionale ribalta la presunta colpa: ciò che era stato trattato come prova è ora un sospetto non suffragato, e ciò che era stato raccontato come atto di responsabilità appare come scelta compiuta in assenza di un’istruttoria.

Complicità

Il verdetto dell’Aia non libera soltanto l’Unrwa da un’accusa: restituisce al governo italiano la responsabilità di aver agito prima delle prove, con nomi e cognomi. Tajani ha firmato la sospensione. La premier Giorgia Meloni ne ha rivendicato l’indirizzo, presentandolo come linea di fermezza internazionale. Salvini ne ha garantito la legittimazione ideologica, presentando la distanza dall’Unrwa come un marchio identitario.

Diversi politici hanno contribuito a consolidare la cornice di sospetto nelle sedi istituzionali. Nel frattempo, il definanziamento ha colpito un’agenzia umanitaria nel cuore di una carestia, quando circa due milioni di civili dipendevano dalla sua sopravvivenza logistica.

Oggi la giustizia internazionale ha pronunciato la sua versione dei fatti. Di quell’accusa resta una narrazione infranta, che non può essere ricomposta con un semplice cambio di linguaggio. Il resto è una questione di credibilità diplomatica e responsabilità pubblica che qualcuno, prima o poi, dovrà assumere davanti al diritto e alla memoria.

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