Lo scorso ottobre, davanti al Colosseo, papa Francesco è stato se possibile più radicale che nell’enciclica Fratelli tutti: «La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male e dobbiamo smettere di accettarla con lo sguardo distaccato della cronaca per sforzarci di vederla con gli occhi dei popoli!».

L’occasione era la 35° edizione delle giornate di dialogo interreligioso per la pace organizzate dalla Comunità di Sant’Egidio. Accanto al papa c’erano due amici citati nell’enciclica: il patriarca Bartolomeo e il grande Imam di al Azhar, al Tayyeb. C’era pure Angela Merkel e numerosi rappresentanti politici e religiosi da circa 40 paesi.

Il tema della pace è tornato d’attualità in maniera molto concreta viste anche le guerre fallite. Non si tratta soltanto di morale. La politica internazionale sta in effetti cercando una soluzione al problema: come difendere l’ordine e la stabilità internazionale visto che lo strumento guerra ha provocato più danni di quanti ne voleva risolvere?

Le immagini che abbiamo recentemente visto in Afghanistan sono eloquenti: un dramma per le persone accalcate all’aeroporto, una sconfitta per chi andava via, un brutto futuro per tutti gli afghani. Questo è accaduto dopo 20 anni di guerra che non ha dato nessun risultato malgrado le centinaia di migliaia di vittime e i tanti denari spesi. Un paese poverissimo che è rimasto tale, un’impotenza nel costruire modalità di convivere, una contrapposizione tra stati che è addirittura cresciuta.

Per capire il nuovo discorso sulla pace occorre guardare la guerra in faccia. In Afghanistan non è servita a niente: siamo al punto di partenza e questo deve provocarci a una seria riflessione su questo strumento. La guerra non risolve niente. Anche perché – è una constatazione evidente – nessuno è più in grado di vincerla davvero.

Violenza permanente

Guerriglieri, miliziani e terroristi lo sanno bene: non puntano a vincere ma a impedire la completa vittoria dell’avversario. In questi anni troppe guerre sono state fatte senza risultati: lasciar dietro di sé una scia di morte (e di rancori) senza nemmeno riuscire a vincere è una totale assurdità. La cosa più grave è che la guerra non finisce ma si trasforma in violenza diffusa permanente.

Di conseguenza in maniera oggettiva possiamo constatare che la guerra è uno strumento ormai obsoleto, vecchio, inutile e dannoso. Non è ingenuità pacifista. È noto che ci sono tanti dissidi politici da risolvere, anche gravi.

La pace infatti non è mai un improvviso bagno irenico smielato che risolve in maniera buonista e con magia tutte le discordie. Per risolvere i numerosi problemi ci vuole reciproca conoscenza, dialogo, in certi casi paziente negoziato e mediazioni, compromessi politici, quadri internazionali di riferimento e tanto altro.

Quello che però si può constatare con assoluta certezza è che la guerra non è lo strumento adatto. Ciò non cambia nemmeno se la si maschera sotto altri nomi: intervento umanitario, responsabilità di proteggere e così via. Lo strumento militare peggiora sempre la situazione che vorrebbe correggere. Con le armi il mondo diventa peggiore.

Oggi lo verifichiamo purtroppo in Siria, in Iraq, in Yemen, in Libia, in Ucraina, in Afghanistan, in Somalia e altrove. Anche per questo il papa al Colosseo si è scagliato contro il commercio delle armi. Quando il conflitto attanaglia un paese, non lo lascia più andare. Molti paesi restano a terra e nessuno vuole o può ricostruirli.

Sono stati dove la gente è fuggita, la vita è diventata impossibile o è addirittura cambiata la composizione etnica. La guerra non raggiunge gli obiettivi che si è data nemmeno quando viene fatta in nome della pace o dei diritti umani. Questo è il punto: la guerra non serve ad affermare la giustizia. Oltre le ragioni etiche e politiche per un suo ripudio, c’è da constatare tale dato fattuale e oggettivo: le guerre sono inutili o peggiorano la situazione.

Le ragioni del conflitto

È venuta l’ora di prendere consapevolezza di tale fatto e tornare all’intuizione del “never again” del secondo dopoguerra, che al contrario ha prodotto molti frutti. La pace diventa possibile a partire da tale consapevolezza. Se questo è vero, perché allora la guerra è tornata a essere popolare e si ripresenta senza pudore? Ci sono due ragioni principali.

La prima è la cultura della globalizzazione: forte competitività che in politica diviene contrapposizione violenta. È una cultura che afferma che per risolvere i problemi occorre affrontarsi e combattere contro gli altri. L’economia globalizzata ha reso accettabile una violenta cultura della competizione che ha travolto la politica e l’ha trasformata e polarizzata.

La seconda causa è la manipolazione della paura. Basti pensare agli attentati dell’11 settembre 2001 e alle guerre che ne sono seguite, strumentalizzando la paura della gente in ogni dove. Terrorismo e guerra preventiva hanno prodotto antipatia sociale e scavato fossati con la predicazione dell’odio. Questo spiega le difficoltà attuali delle costruzioni collettive come l’Ue o l’Unione africana ma anche l’Onu.

Nelle relazioni internazionali troppi dirigenti politici si sono arresi a tutto questo: troppa rassegnazione, poche iniziative di pacificazione e crescente tentazione di risolvere i contenziosi con la forza. Approfondendo l’analisi si osserva che ciò vale anche per la vita delle società al loro interno, in cui spesso tutto si polarizza in maniera competitiva producendo conflitti.

Osserviamo fanatismi ideologici riapparire senza nascondersi, la ripresa del fascismo in Italia o l’antisemitismo che cresce nuovamente in tutta Europa. La guerra più frequente è quella contro i poveri, gli ultimi o i diversi. Non può esserci pace per una società che esclude. I poveri intuiscono meglio di tutti il valore della pace.

Per loro – che non possono difendersi – la pace è vitale. In una società dominata dalla competizione, i poveri soffrono di più: sono l’ago più sensibile anche dal punto di vista sociologico. Se una società diviene più spietata e violenta al suo interno, la classe povera è quella che se ne accorge prima.

Oltre lo spirito del tempo

Occorre andare oltre lo spirito del nostro tempo, fatto di individualismo, mercatismo e assuefazione per le disuguaglianze. Secondo tale mentalità la felicità è l’estensione dell’io proprietario (talvolta predatore) contro quello degli altri. Una società che accetta la guerra in realtà l’ha già combattuta dentro di sé. Il no al povero, al diverso, all’ultimo prepara il no al vicino e poi allo straniero.

Una società indurita ha già inconsapevolmente perso la pace ma non lo sa. Scriveva l’autore ungherese Sándor Márai rammentando le sue esperienze giusto prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale: «La guerra era ancora una prospettiva indistinta, soltanto il fumo e la cenere della pira suicida aleggiavano già nell’aria, ma gli avvoltoi delle catastrofi umane, i profittatori dell’economia bellica si tenevano già pronti dietro i confini in attesa di banchettare coi loro becchi famelici sulle carcasse delle vittime del gran funerale. Non c’era ancora la guerra e già non c’era più la pace».

Per questo è indispensabile che nelle società siano continuamente costruiti ponti e abbattuti muri, sia psicologici che reali: si tratta di un processo sociale che libera dalla paura e dall’incertezza fomentate dalla cultura della contrapposizione. Com’è noto quest’ultima provoca disuguaglianze, apartheid razziste, patologia della memoria, rancore sociale.

La pace non è semplice ma si basa sullo sforzo del convivere che inizia vicino a sé, nella politica sociale, e porta lontano, fino alla politica estera. Anche le religioni possono aiutarsi reciprocamente a evitare le manipolazioni fondamentaliste e fanatiche, per vivere la globalizzazione come un’avventura dello spirito che contrasti la paura e costruisca un nuovo grande movimento di pace e dialogo mondiale. Questo è lo spirito di Assisi che dissocia le religioni dalla guerra.

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