Autodeterminazione dei popoli: principio giustissimo, nobile, democratico. Evoca eroismi risorgimentali, lotte anticoloniali, moltitudini in marcia contro l’oppressore. Ma allora perché, quando il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson propose alla Conferenza di Parigi di usarlo come una ruspa per smantellare le “prigioni dei popoli” austro-ungarica e ottomana, il segretario di Stato americano, Robert Lansing, scrisse nel suo diario che quel principio suadente in realtà era “caricato con la dinamite”? E perché oltre un secolo dopo potremmo dire che Lansing non aveva tutti i torti?

In quel remoto 1919 diplomatici armati di righelli e di un’ignoranza arcigna si sarebbero chinati sulle mappe degli imperi sconfitti per sezionarli lungo confini spesso improbabili, ma sempre congrui ai calcoli dei vincitori. Lansing non sarebbe vissuto abbastanza per vedere Hitler invadere i sudeti cecoslovacchi nel nome del democraticissimo diritto dell’etnia tedesca, maggioritaria, ad autodeterminarsi ricongiungendosi con la madrepatria. Però non si sarebbe sorpreso nello scoprire che il principio di autodeterminazione è tuttora “caricato con la dinamite”, o in questi mesi con il nucleare.

Putin vi si è appellato per invadere l’Ucraina e difendere i diritti dei russofoni, a suo dire oppressi da un regime di usurpatori nazisti. Altri nazionalismi slavi – il serbo, il croato – vorrebbero ricorrervi per squartare definitivamente la Bosnia. E nei crogiuoli etnici balcanici, africani, asiatici, procede sregolato lo scontro tra sovranità e secessionismi, autonomi o più spesso sponsorizzati da altri stati. In un certo senso siamo ancora impigliati nella fine della Prima guerra mondiale, nelle ambiguità di una formula – il diritto all’autodeterminazione – che andrebbe purificata da insidie e malintesi per mezzo di una nuova legalità internazionale.

L’esempio jugoslavo

Cosa vuol dire “autodeterminazione”? Cos’è un “popolo”? E qual è la relazione dell’una e dell’altro con il territorio e i suoi confini? Finché questi dilemmi non troveranno una soluzione universalmente accettata, lo sfasciarsi di ogni agglomerato multietnico gronderà sangue.

L’esempio a noi più prossimo è la crisi jugoslava. Durante la Guerra fredda la federazione sopravviveva grazie ai prestiti del Fondo monetario, generosamente elargiti affinché Belgrado restasse nel campo dei non-allineati: se si fosse alleata con Mosca, la Nato sarebbe stata costretta a ridisegnare larga parte del fronte orientale. Ma dissolta l’Urss quel rischio non esisteva più, e con quello veniva meno anche l’incentivo a sovvenzionare il fallimentare “socialismo autogestito”. Se gli europei fossero stati saggi avrebbero intuito che l’implodere della Jugoslavia li avrebbe investiti con le sue onde d’urto: guerre, instabilità, profughi. Invece prevalse (soprattutto in Germania, in Austria, in Italia) l’illusione che sarebbe stata un buon affare, che avrebbe rafforzato le rispettive zone di influenza.

Ripercorrere adesso quelle vicende aiuta a capire quali miraggi, avidità e calcoli inconfessati spesso usino come pretesto l’autodeterminazione. Al progetto demolitorio perseguito da alcune capitali europee si sovrappose il trasformismo della classe dirigente jugoslava, che pur di acquisire consenso si convertì al nazionalismo più aggressivo.

Nella biografia di Slobodan Milosevic una giornata del 1989 fa da spartiacque. Quella mattina il presidente serbo è ancora un tecnocrate ligio all’ufficialità titoista. Incontra in Kosovo i minatori di etnia albanese e tiene un discorso nel vecchio stile “unità e fratellanza”. Silenzio ostile, qualche fischio. Due ore dopo Milosevic è tra i lavoratori serbi e, intuito o stizza, liscia il pelo al nazionalismo gran-serbo, ricorda la gloriosa battaglia della Piana dei merli (1389), omaggia lo spirito di quei cavalieri che si immolarono per fermare i Turchi alle porte dell’Europa. Quasi lo portano in trionfo.

Avendo capito le politiche “identitarie”, il gruppo dirigente di ciascuna Repubblica jugoslava si dedicò alla costruzione di un’immagine del proprio “popolo” che avesse tratti unici, grandiosi, radicati nella storia e congrui con l’idea di una totale diversità dai “popoli” circonvicini, spesso rappresentati come un’umanità minore, minacciosa, detestabile («Dobbiamo insegnare ai croati ad odiare», confiderà un ufficiale di Tudjman). Nell’impresa vennero cooptati non solo greggi di giornalisti ma anche le accademie delle scienze di ciascuna Repubblica: molti accademici si vendettero al nazionalismo per un prezzo vile, a conferma del fatto che non solo in Italia la condizione dell’intellettuale non comporta necessariamente un tasso di onestà maggiore di quanto esprimano gli avvocati, i vigili urbani o i fruttivendoli.

“Scontro tra civiltà”

In quegli anni l’idea che a ogni popolo corrisponda un sistema di valori e di comportamenti (quello che tecnicamente si chiama una “cultura”) divenne la griglia di riferimento non solo delle accademie jugoslave ma anche dei grandi giornali italiani. Belgrado risultava capitale di un sentire autoritario e asiatico, da alcuni detto “serbo-comunismo”. La Croazia invece appariva parte del nostro mondo, in quanto cristiana e “liberale”. I musulmani di Bosnia, mah («Una presenza innaturale in Europa», dirà in privato Mitterand a Clinton).

Sulla premessa che i conflitti non siano più ideologici ma “culturali” un politologo americano, Samuel Huntington, costruì uno schema grandioso, lo “scontro tra civiltà”, che incardina la “cultura” in una storia di lunga durata, sedimentata nei secoli, “oggettiva”. Nelle note al libro, uscito nel 1996, Huntington scrive che la guerra di Bosnia è stata appunto il primo “scontro tra civiltà”. È una balla clamorosa ma conforme a una tesi che piace. The clash of civilizations è probabilmente il testo più influente degli ultimi decenni; formerà tra l’altro una generazione di islamisti, cui conferma che con l’occidente non può esservi che ostilità.

Con Huntington l’identità di un “popolo” risulta così fondata non solo da un convincimento collettivo ma soprattutto dalla “cultura” sedimentata dalla religione e dai secoli. L’auto-percezione delle moltitudini può dimostrarsi mutevole come le identità  politiche di Di Maio, influenzata com’è da convenienze e circostanze.

Anni fa tanti settentrionali si sentivano padani, anti-europei e forse neppure italiani, ma oggi non sembrano più appassionarsi all’identità padana e non perseguono una “Italexit”. Invece la storia non bara. Non mente. O no?

Per effetto di infinite vicissitudini i russi hanno “sacralizzato” la Crimea, dice in tv un geopolitico noto, col tono sommesso che si addice ad affermazioni inconfutabili, definitive. Per cui, par di capire, è giusto che la Crimea se la tengano. Ma di quali russi parliamo? I russi che si oppongono a Putin e all’operazione speciale non hanno sacralizzato un bel niente e obietterebbero che la frase del nostro geopolitico è pomposa e falsa. E la Crimea potrebbe risultare “sacra” anche ai Tatari, che per secoli e ancora all’inizio dell’Ottocento erano la maggioranza della popolazione (poi vennero perseguitati, deportati, espulsi dallo zar e da Stalin; quelli che rimangono ora destano l’attenzione della polizia segreta di Putin).

Se è la storia a decidere la sovranità, si potrebbe sostenere che la Crimea è più tatara che russa. Se invece la sovranità è decisa dal convincimento degli abitanti, se insomma i russofoni putiniani della Crimea possono indire un referendum e votare la secessione dall’Ucraina, come hanno fatto senza la minima garanzia sulla correttezza del voto, allora lo stesso diritto all’indipendenza andrebbe riconosciuto ai tatari che abitano nel sud della penisola: se vogliono staccarsi dalla repubblichetta russa e fondare una repubblichetta tatara, perché non potrebbero?

Insomma l’autodeterminazione è principio assai contorto. E portato alle sue conseguenze suona come il principio della frammentazione infinita, dato che ogni minoranza spesso contiene a sua volta una minoranza. Converrebbe anche a Mosca trattarlo con circospezione: dopotutto potrebbero invocare il diritto all’indipendenza di una ventina di minoranza russe, solo per citare le maggiori (uriati e baschiri, ciuvasci e ceceni, armeni e osseti, moldavi e tagichi, kazachi e azeri, insomma quei 28 milioni di cittadini della federazione che non sono etnicamente russi).

Correttivi

Però col tempo l’autodeterminazione ha trovato correttivi che ne hanno bagnato le micce. In principio gli stati tentarono, talvolta con successo, di stemperare le spinte secessioniste concedendo ampie autonomie. Più efficaci risultarono in Europa gli accordi internazionali tra paesi limitrofi: se i dazi cadono, le economie si interconnettono e i confini sbiadiscono, le minoranze non hanno motivo di sentirsi prigioniere di uno stato ostile. L’Unione europea è una buona scuola, ha svuotato di senso aspri e antichi conflitti etnici. E anche per questo oggi risulterebbe fondamentale incardinare il negoziato per l’ingresso nella Ue di Bosnia, Macedonia, Serbia, Montenegro, Kosovo, quei Balcani pericolosamente irrisolti in cui conflitti definiti come “etnici” tuttora minacciano di deflagrare. Ma questo esito – ancorché il più razionale – si scontra con le gelosie e le ripicche di alcuni paesi membri, a ulteriore conferma che un’Unione organizzata secondo le regole unanimistiche di un condominio – per giunta un condominio abitato anche da brutti ceffi – non può andare lontano.

Altri correttivi all’autodeterminazione sono negli Accordi di Helsinki (1975). Fondamentali per evitare alla Guerra fredda un finale violento, oggi i dieci princìpi di quella Carta andrebbero armonizzati e aggiornati, così da fondare la legalità del nuovo mondo multipolare. Un effettivo rispetto dei diritti umani, per esempio, proteggerebbe le minoranze indifese in molti paesi dell’ex terzo mondo, lì dove i gruppi dirigenti che guidarono la lotta per l’autodeterminazione in seguito abbatterono sulla schiena di comunità “non omologhe” la frusta strappata dalle mani dei colonizzatori. Sicché l’autodeterminazione da una parte sconfisse il potere “bianco” e dall’altro lo sostituì con un colonialismo interno, forse meno rapace ma certo non meno brutale. Fino a ieri sponsor di tutte le lotte anti-coloniali, oggi Pechino applica agli uiguri dello Xinjiang trattamenti come la “rieducazione collettiva” che sarebbero piaciuti alle potenze occidentali un tempo accampate in Cina.

Ma il vero e più efficace antidoto all’uso strumentale dell’autodeterminazione è nei due princìpi della Carta di Helsinki che nel 1975 proprio Mosca tenne a enfatizzare, e che ora Mosca calpesta e rinnega: l’inviolabilità dei confini e il rispetto dell’integrità territoriale degli stati. Questa è la posta della guerra in Ucraina, questo è in gioco. Eppure ne siamo così poco consapevoli che non ci scandalizziamo se tanti ora pretendono la resa di Kiev: che quell’invasato di Zelensky rinunci alla sovranità dei territori occupati dai russi! Che si faccia realista, si converta alla pace!

Il campo dei neutralisti

Ma la pace che s’invoca è solo la premessa di altre guerre. Dagli anni Sessanta a oggi potenze grandi e piccole hanno patrocinato ogni sorta di intervento militare, tra “aiuti fraterni”, guerre per procura, guerre del petrolio, spedizioni punitive, spedizioni umanitarie. Ma nessuna di quelle imprese si concluse con l’annessione dei territori conquistati. L’unica eccezione, l’invasione del Kuwait a opera dell’Iraq di Saddam Hussein, fu rintuzzata e punita da una larghissima coalizione. Semplicemente, le guerre di conquista non vanno fatte. Non sono accettate. Minacciano la stabilità internazionale. E su questo c’è, o c’era, un consenso generale.

Se ora cade il tabù, Putin potrebbe perseguire con le sue “operazioni speciali” l’autodeterminazione ad altre minoranze russofone sparse oltreconfine. Con la protezione russa, la repubblichetta serba di Bosnia potrebbe “autodeterminarsi” proclamando una sanguinosa secessione. E qualsiasi regime provvisto di forze armate poderose si riterrebbe autorizzato a esercitare un presunto diritto storico arraffando territori limitrofi: l’Egitto in Libia, la Turchia in Siria, la Cina a Taiwan. Detto altrimenti, i “neutralisti” sono i migliori alleati di Marte, dio della guerra.

Il neutralismo ignora tutto questo perché guarda al conflitto in Ucraina con gli occhiali della scuola del realismo, per la quale la legalità internazionale è irrilevante e la storia va letta unicamente come scontro tra grandi potenze. Sicché l’invasione dell’Ucraina sarebbe la reazione russa a un’aggressione della Nat o cominciata a Kiev nel 2014, con un colpo di stato ispirato da Washington. Per i neutralisti è una verità assodata.

Quando un mensile americano di marxisti rigorosi, the Jacobin, indaga su quegli eventi, trova un sommovimento violento e 3mila estremisti ucraini in azione, ma né golpe né Cia. Ancora i neutralisti: le successive provocazioni Nato non sarebbero un prodotto tipicamente Nato di supponenza e di ottusità, ma rimanderebbero a un piano per indebolire la Russia. Un noto pacifista cita a conferma un autorevole specialista di Russia contemporanea, Stephen Kotkin, docente di Princeton. Bizzarro malinteso, Kotkin sostiene l’opposto: per Putin «l’espansione della Nato è diventata un pretesto o una scusa post-facto».

Se crediamo ai sondaggi oggi l’Italia è il paese europeo più neutralista (stando per esempio a Euromedia, solo un italiano su due, il 56 per cento, è convinto che la guerra sia responsabilità russa; e il 54,8 per cento, si oppone all’invio di armi pesanti: insomma spera che Putin vinca, imponga la sua pace e ci ridia il gas). Però anche nel resto dell’Europa sembra in aumento l’incertezza, forse anche a motivo della debolezza della narrazione occidentale.

Una nuova Helsinki

La Nato forse avrebbe maggior successo se spiegasse che aiutiamo l’Ucraina a difendere il principio fondativo della pur striminzita legalità internazionale, ovvero il rispetto dell’integrità territoriale degli stati (punti 3 e 4 del decalogo di Helsinki), e con quello la pace nel mondo. Le presterebbero ascolto, forse, anche non pochi paesi a rischio di essere mutilati dal vicino.

Invece l’Alleanza atlantica, e a ruota molto giornalismo italiano, si ostinano a raccontare il conflitto ucraino come esordio di un ben più esteso conflitto “democrazie contro autocrazie”. Questa formula sembra funzionale a infilare nella stessa casella Cina e Russia, e di conseguenza ad arruolare i recalcitranti europei nella sfida Usa-Cina che ha per teatro il cosiddetto Indo-pacifico. Ma è corretto equiparare Mosca e Pechino? Dall’occupazione del Tibet (1950) la Cina non pratica guerre di conquista e ora auspica una soluzione alla crisi ucraina nel rispetto dei confini: finché non fosse provato che intende invadere Taiwan andrebbe distinta dalla Russia.

Beninteso, non è in dubbio che la Cina sia l’opposto di uno stato di diritto liberale. Ma non dovrebbe essere questa la discriminante. Senza contare che dovremmo trovare l’onestà di ammettere che l’occidente attuale non sembra tanto una fratria di gagliarde democrazie, quanto piuttosto un sanatorio per stati di diritto liberali (il più malandato dei quali è il capofila, gli Stati Uniti).

Tutto questo rende più originale l’euro-atlantismo di Mattarella-Draghi. Accusati di accodarsi a Washington dalla sinistra reazionaria, quella adesso allineata con la destra realista, e tirati per la giacca dal giornalismo che li copre d’ossequio ma li vorrebbe nella trincea “noi occidentali contro Russia e Cina”, i due perseguono una soluzione alla crisi ucraina che profili le nuove regole del mondo multipolare. «Uno sforzo creativo su un modello di conferenza di Helsinki» (Draghi), per «costruire un quadro internazionale condiviso» (Mattarella).

E poiché inevitabilmente quella nuova Helsinki dovrà armonizzare autodeterminazione e rispetto dell’integrità territoriale, l’unico esito possibile a lungo andare parrebbe quello proposto nel 2014 da un intellettuale lungimirante, Predrag Matvejevic: i russi fuori, Ucraina integra nei confini del 1991, però riconfigurata come confederazione tra Kiev, Crimea e le repubblichette russofone del sud-est.

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