Centinaia di migliaia di persone hanno celebrato in Plaza de Mayo Cristina Fernández de Kirchner nel giorno in cui diventava esecutiva la condanna a sei anni di reclusione (e proscrizione a vita) per il caso Vialidad, la gestione fraudolenta di 500 milioni di dollari di opere pubbliche.

La due volte presidenta dell’Argentina, 72 anni, è dunque agli arresti domiciliari con alcune pene accessorie decise ad hoc, come l’insolita proibizione di affacciarsi dal balcone per non intralciare la quiete pubblica. Per nove giorni, infatti, gli isolati intorno all’appartamento di calle San José, nel quartiere di Constitución, a Buenos Aires, si erano trasformati in un enorme, continuo meeting popolare, con la dirigente che ripetutamente si affacciava dal balcone con atteggiamento festoso.

L’apoteosi è stata mercoledì 17 quando alla consueta militanza peronista – piaccia o no, uno dei movimenti politici con più capacità di mobilitazione al mondo – si è affiancata la sinistra diffusa, il mondo dei diritti umani, comunisti, trotzkisti, i movimenti femministi, della scuola, dell’università, i pensionati, riunificati tutti nel nome di Cristina contro il governo Milei.

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L’eco della condanna, applaudita dall’altra metà del paese, ha dunque esaltato la centralità, se non altro come kingmaker, di una dirigente immensamente amata e altrettanto immensamente odiata. Il Partito Giustizialista, l’enorme, caotico, oscuro mondo peronista, ha messo da parte le differenze, le rivalità e le inettitudini dimostrate nei quattro anni di Alberto Fernández e nell’anno e mezzo di Javier Milei. Perfino il governatore della Provincia di Buenos Aires, Axel Kicillof, si è stretto a Kirchner, come forma migliore di marcare il territorio e candidarsi a sfidare Milei nel 2027. Milei stesso, pur senza mai abbassare il termometro dell’odio, si è assentato per l’ennesimo viaggio all’estero, da Giorgia Meloni a Roma e da Benjamin Netanyahu a Tel Aviv, e ha mostrato paura, rinunciando a esibire l’avversaria (vinta?) in carcere.

Corrotta o prigioniera politica?

L’appartamento di Constitución – che già i media locali paragonano alla casa madrilena di Juan Domingo Perón, centro della politica argentina in esilio, è stato visitato in questi giorni dalle principali associazioni per i diritti umani, a partire da madri e nonne di Plaza de Mayo, al Premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquivel, al movimento femminista «Ni una menos».

Sulla sentenza, l’autorevole giurista Eugenio Zaffaroni, già membro della Corte Suprema, e oggi alla Corte Interamericana di Giustizia, si è espresso con rara durezza: «Si tratta di una sentenza politica, scritta da politici e che i giudici hanno solo controfirmato, volta alla proscrizione di Cristina Kirchner». Per Zaffaroni la condanna è l’ennesimo caso di lawfare, volto a frenare i progressisti latinoamericani.

Come il giurista la pensa la presidenta messicana Claudia Sheinbaum, che da mesi tiene testa a Donald Trump, e che parla di «condanna politica». Il brasiliano Lula ha già annunciato che visiterà Cristina il primo luglio, e ha comparato il caso al suo, che patì 580 giorni in carcere dal 2017 al 2019, prima che il complotto ordito dal giudice Sergio Moro, poi ministro di Bolsonaro, cadesse a pezzi e il leader del Partito dei lavoratori fosse restituito alla vita pubblica. Con il cileno Gabriel Boric e il colombiano Gustavo Petro, si starebbe preparando un “Comitato internazionale per la libertà di Cristina”, che sarebbe presieduto dall’ex magistrato spagnolo Baltazar Garzón, e che punta a presentare il caso alla Corte Interamericana per i diritti umani.

A Javier Milei sembra bastare l’appoggio di Donald Trump, ma in America Latina l’Argentina non è mai stata così sola.

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