Il 19 settembre scorso, l’Azerbaigian ha lanciato un’operazione militare nel Nagorno-Karabakh, enclave a maggioranza armena in territorio azero contesa da decenni. «Ci siamo rifugiati per giorni in un bunker, mentre gli edifici intorno a noi venivano bombardati» racconta Lusine, che è originaria di Stepanakert, la città principale del Nagorno-Karabakh, mentre i suoi quattro figli, tra i quattro e i dodici anni, giocano nell’appartamento buio di Yerevan in cui vivono adesso.

Dopo l’attacco dell’esercito azero e la resa quasi immediata delle autorità dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh (nome armeno del Nagorno-Karabakh), la quasi totalità della popolazione della regione è fuggita verso l’Armenia. «Il 25 settembre abbiamo deciso che ce ne saremmo andati e mio marito è uscito assieme a nostro figlio per cercare carburante per il viaggio», racconta Lusine, «qualche ora dopo, mio figlio è tornato da solo, piangendo, e raccontando che era avvenuta un’esplosione al deposito di carburante e che non era riuscito a trovare suo padre». Dopo aver cercato il marito per giorni in tutti gli ospedali, il 27 settembre Lusine ha deciso di partire; «tutti erano spaventati e ci dicevano di andarcene: ho preso solo qualche vestito per i bambini, li ho fatti salire in macchina e ho guidato fino a Yerevan».

Lusine, 35 anni (foto di Maria Colonna)

Tre mesi dopo, il corpo del marito di Lusine non è ancora stato trovato: con ogni probabilità è una delle oltre 220 vittime dell’esplosione al deposito di carburante (almeno altrettante sarebbero, secondo le autorità dell’Artsakh, le vittime civili e militari causate dai combattimenti). «Vorrei solo sapere cosa è successo a mio marito,» dice Lusine «era un padre molto presente, i bambini lo adoravano: adesso non so come farò a crescere quattro figli senza il suo supporto». Come rifugiata, Lusine riceve un contributo di circa 110 euro al mese dal governo armeno, che però «non è sufficiente per coprire le spese: il governo ci ha abbandonato, ci ha tradito, e adesso non sta facendo abbastanza per aiutarci. La nostra vita in Artsakh era magnifica, e da un giorno all’altro è scomparso tutto».

Decenni di guerra finiti in 24 ore

Il Nagorno-Karabakh è teatro di conflitti da decenni. Nel 1991, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, Armenia e Azerbaigian ottennero l’indipendenza: il Nagorno-Karabakh, una regione a forte maggioranza armena e cristiana inclusa nei confini dell’Azerbaigian, paese a maggioranza musulmana, proclamò la propria indipendenza come Repubblica dell’Artsakh. Seguì un conflitto tra Armenia e Azerbaigian che provocò circa trentamila vittime e centinaia di migliaia di rifugiati e che si concluse nel 1994 con la vittoria dell’Armenia e con l’indipendenza de facto del Nagorno-Karabakh.

Nei decenni successivi continuarono scontri sporadici tra le truppe armene e quelle azere, tuttavia il governo autoproclamato della Repubblica dell’Artsakh continuò a godere di un’indipendenza de facto grazie al forte sostegno politico, militare ed economico dell’Armenia. Nel 2020 scoppiò una seconda guerra che causò oltre settemila vittime civili e militari. L’Azerbaigian, arricchitosi grazie al petrolio, sostenuto dalla Turchia e armato da Israele, prevalse sull’Armenia e riconquistò la maggior parte del territorio perso due decenni prima. Una parte del Nagorno-Karabakh rimase in mano al governo separatista; il corridoio di Lachin garantiva il collegamento con l’Armenia.

La rottura di questo fragile equilibrio è iniziata a dicembre 2022, con la chiusura di questo corridoio di terra da parte dell’Azerbaigian. Per mesi gli abitanti del Nagorno-Karabakh hanno vissuto isolati, senza cibo, medicinali e beni di prima necessità, fino all’attacco militare dell’Azerbaigian dello scorso 19 settembre. A differenza del passato, in questa occasione il Nagorno-Karabakh non ha ricevuto alcun supporto militare dall’Armenia, e i peacekeeper russi (presenti dal 2020) non sono intervenuti. Dopo trent’anni di guerre e di indipendenza de facto, sono bastate 24 ore all’Azerbaigian per occupare la totalità della regione e ottenere la resa delle autorità separatiste. Dal 1 gennaio la Repubblica dell’Artsakh ha smesso anche formalmente di esistere.

Al termine dell’operazione militare, una volta compreso che il Nagorno-Karabakh sarebbe tornato sotto il dominio azero, oltre 100mila persone (su una popolazione complessiva di circa 120mila) sono fuggite verso l’Armenia. Secondo un rapporto delle Nazioni unite, sono rimasti in Nagorno-Karabakh solo tra i cinquanta e i mille armeni. Si è trattato di un esodo improvviso e massiccio, mosso dal timore di subire violenze e persecuzioni, nonostante il presidente azero Ilham Aliyev abbia dichiarato che i diritti della popolazione armena saranno rispettati.

Pulizia etnica 

«Non c’era nessun motivo per gli armeni di fidarsi di queste promesse», dice l’avvocatessa Sheila Paylan «dal punto di vista del diritto internazionale, si tratta comunque di esodo forzato di popolazione, di deportazione, che è un crimine contro l’umanità». Spiega Paylan: «se esiste un timore fondato di subire violenza, una situazione per cui chi lascia il posto in cui abita non lo fa volontariamente, allora è presente un elemento di forzatura, che determina il crimine secondo il diritto internazionale.»

Si tratta anche di persecuzione, dal momento che «queste persone sono state deportate per la loro appartenenza a un gruppo etnico». Paylan aggiunge che, in termini di percentuale di popolazione che ha abbandonato la propria terra, «si tratta probabilmente della più efficace operazione di pulizia etnica del secolo: non è rimasto praticamente nessun armeno in tutta la regione». Anche il parlamento europeo ha condannato l’Azerbaigian usando il termine pulizia etnica.

Un conflitto combattuto da generazioni

Venera, 48 anni (foto di Maria Colonna)

«Ancora una volta, abbiamo perso tutto», dice Venera. Lei, il marito e i quattro figli sono originari della provincia di Hadrut in Nagorno-Karabakh, occupata dall’Azerbaigian durante la guerra del 2020; da allora hanno vissuto come sfollati a Stepanakert. Il 25 settembre, dopo l’attacco dell’Azerbaigian, sono fuggiti verso Yerevan. «Nel nostro villaggio avevamo due case, mio marito era sindaco, avevamo entrambi un lavoro, e con la guerra abbiamo perso tutto. Adesso, per l’ennesima volta, dobbiamo ricominciare da capo».

Venera racconta che la difficoltà principale è quella di trovare un alloggio: il supporto economico del governo non basta per coprire gli affitti, molto alti soprattutto nella capitale Yerevan, dove d’altra parte è più facile trovare lavoro. Inoltre, la situazione relativa al loro status giuridico è poco chiara: possono scegliere se registrarsi come rifugiati, in modo da ottenere maggiore aiuto dal governo, o se fare domanda per ottenere la cittadinanza armena, che renderebbe più facile trovare lavoro. «Il supporto che riceviamo è troppo scarso, ho l’impressione che al governo non importi molto di noi».

«Vivere in Armenia non è la stessa cosa che vivere in Artsakh: l’Artsakh è il nostro paese, la nostra casa», conclude Venera, «anche quando avevamo fame, durante i mesi di blocco, non volevamo andarcene. Qui non conosciamo nessuno, è difficile integrarsi». Venera esprime anche preoccupazione per i figli: «mia figlia ha solo 18 anni, ed è stata sfollata così tante volte, ha vissuto così tante guerre: siamo spaventati appena sentiamo un rumore, non ci sentiamo mai al sicuro».

Sacrificati per la pace

Il palazzo dove abita Venera, nella periferia di Yerevan (foto di Maria Colonna)

A inizio dicembre, Armenia e Azerbaigian hanno avviato colloqui di pace e hanno realizzato uno scambio di prigionieri. L’avvocatessa Sheila Paylan è però scettica nei confronti di questi negoziati: «è stato commesso un grave crimine internazionale, e da un crimine non può nascere una vera pace: non è una pace giusta, e non sarà nemmeno una pace duratura, perché l’Armenia sta negoziando con una pistola puntata alla tempia».
Il timore che questa pace non sia duratura è condiviso da molti in Armenia: la paura è che l’Azerbaigian, vista la superiorità militare e la facilità con cui ha occupato il Nagorno-Karabakh, non si fermi dopo questa vittoria e invada l’Armenia. Questo rischio è percepito soprattutto lungo il confine, dove dal 2021 alcuni territori armeni sono occupati dall’Azerbaigian, e a sud, dove si trova l’enclave azera del Nakhichevan, che l’Azerbaigian vorrebbe collegare al resto del paese.
«Per evitare che questo accada, deve esserci pressione internazionale sull’Azerbaigian», dice Paylan «ma molti paesi, soprattutto in Europa, sono dipendenti dal petrolio e dal gas naturale azero».

«La comunità internazionale è sollevata che il conflitto sia finito, che le persone non stiano più morendo sotto le bombe», conclude Paylan, «ma migliaia di persone stanno ancora soffrendo».

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