Per chi come me – che nella sua vita è (non si smette mai di esserlo) obiettore di coscienza e ha scelto di dedicarsi a un lavoro educativo – osservare che il centenario della nascita di don Milani abbia avuto un’eco pubblica e persino istituzionale così rilevante non può che far piacere e addirittura commuovere. L’auspicio è ovviamente che quest’occasione venga sfruttata per provvedere a un ripensamento della Scuola, della sua funzione pubblica di istituzione, del suo essere necessaria al recupero di un’eguaglianza non formale né solo economica, ma concreta e capace di rispettare la complessità del valore di ogni persona.

Ma non posso non confessare – dopo questi primi giorni di celebrazioni – di essere stato investito da un dubbio che inquieta e fa riflettere. Non il timore scontato che vi saranno anche – in questo eccesso di parole dettato dal rilancio della sua figura – delle riletture agiografiche, retoriche o semplicistiche. Si potrebbe dire che questo è il destino inevitabile di una figura tanto popolare tanto in realtà sfaccettata, problematica, piena di zone che i conformismi ideologici non possono in alcun modo illuminare. Piuttosto, ho la sensazione che la scomodità stessa delle proposte del prete di Barbiana finisca per essere strumentalizzata per rovesciarne gli intenti, con un esito beffardo: quello di sostenere che il fallimento del modello di scuola che i nostri figli frequentano e che è sotto gli occhi di tutti sia in realtà nient’altro che il fallimento del modello di scuola che egli ha proposto. Insomma, che l’occasione sia strumentalizzata per sostenere che don Milani non rappresenti una soluzione alla crisi attuale ma ne rappresenti una delle principali cause. Ci vuole molto poco – soprattutto quando si occupano i mezzi di comunicazione più popolari senza fare prigionieri - per far scendere don Milani dagli altari e farlo salire sul banco degli imputati.

Che questa tentazione di “usar male” l’occasione sia a portata di mano me lo fa credere per esempio un articolo di Luca Ricolfi pubblicato qualche giorno fa sul Messaggero, in cui addirittura si contrappone don Milani a Calamandrei e al senso stesso dell’art. 34 della Costituzione. Come se don Milani non avesse per nulla l’urgenza di usare la Scuola per emancipare i ceti popolari mentre la Scuola della Costituzione avrebbe depositato questa necessità di emancipazione nella formula che richiama – guarda caso – “ai meritevoli”. Riducendo così quell’articolo della Costituzione a un’apologia del merito e il pensiero di don Milani a una sorta di mistica della povertà, mentre il suo intento era precisamente di fornire ai meno abbienti gli strumenti per rimescolare la carta della società. Sta in questo l’elemento che lega don Milani – pur nella complessità ricordata prima – al progetto kantiano dell’autonomia. Non c’è nessun paternalismo che viene evocato da don Milani. La Scuola serve a fare in modo che i poveri possano uscire dal loro stato di minorità senza dover dire grazie a nessuno, senza dover ancora dipendere da qualcuno.

Scuola contro lavoro

Negli stessi giorni (il 27 maggio) in cui Mattarella celebrava il pensiero di don Milani un articolo de Il Tempo riportava le seguenti parole del ministro Valditara: «Dobbiamo insegnare già dalle scuole elementari la centralità e la bellezza del lavoro». Interessante coincidenza: mentre celebriamo don Milani e il suo invito a diffidare di una Scuola che serviva a farci “dottori o ingegneri”, riformiamo la Scuola professionalizzando persino la vita dei nostri bambini, per abituarli fin da subito a diventare in larga parte lavoratori poveri o precari (e solo in piccola parte – quella consueta – dottori o ingegneri). Io, che di scuole elementari so molto poco – per esempio so che non si chiamano più così - e che mi limito a riflettere sulla mia esperienza dentro le aule universitarie, mi rendo conto che questo delirio professionalizzante ha un obiettivo polemico ben preciso: soffocare quel che per don Milani era l’unico vero strumento capace di far saltare il banco dell’omologazione sociale, di dare qualche speranza al figlio del povero di cambiar vita.

Questo strumento era la scrittura. Se qualcuno vuole rischiare di dovermi qualche soldo, sono pronto a scommettere: tra dieci anni gli studenti più brillanti non saranno quelli che si distingueranno per le competenze digitali o per la conoscenza di una lingua straniera, ma quei pochi rimasti che sapranno ancora scrivere in italiano. Il motivo per cui don Milani disprezzava la “cultura alta” era lo stesso per cui noi oggi dovremmo opporci al culto estremista delle competenze o alle mode che mettono al centro innovazioni e amenità di ogni genere. Egli sapeva che sono strumenti di distrazione: tutto ciò che si apprende sarà davvero utile solo per quelli che hanno innanzitutto imparato a scrivere e perciò a pensare. Sviluppare le competenze sarà possibile solo se qualcuno ci ha trasmesso le conoscenze elementari per il nostro sviluppo cognitivo e sociale.

A me pare che la Scuola del merito - quella che Valditara ha certificato dopo decenni in cui tanti altri l’hanno edificata – si basa su un’idea sostanzialmente opposta rispetto alle tesi di don Milani. Usare l’educazione per fornire ai più quelle competenze che l’inchioderanno al loro destino di schiavi e lasciare che pochi sappiano scrivere, leggere, far di conto, pensare, essere cittadini liberi. Eccolo il mio timore: che ad alcuni convenga dichiarare che è necessaria la Scuola della diseguaglianza perché quella che è fallita in questi decenni è la Scuola dell’uguaglianza. Che la Scuola di Barbiana venga rappresentata come ciò che è già stato e non come ciò che ancora non abbiamo realizzato.

Tutto sommato, conviene celebrare don Milani per ricordarsi una cosa semplice ma rivoluzionaria: non c’è alcun demerito a non sapere scrivere se nessuno ce l’insegna. Ma soprattutto non c’è alcun merito a saper scrivere se a quelli che non sanno farlo è ormai proibito impararlo.

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