Raramente in epoche recenti – quantomeno negli ultimi decenni – l’Italia e l’Europa si erano trovate a dover fronteggiare una situazione così complicata a livello internazionale. Prima la pandemia, che aveva bloccato l’economia provocando una recessione senza precedenti; oggi la guerra in Ucraina, che sta infliggendo un altro pesante shock all’economia globale e ampliando in maniera preoccupante la frattura geopolitica tra l’occidente (compatto nel condannare e sanzionare la Russia) e il resto del mondo con la Cina in testa. Il tutto mentre il riscaldamento globale non è più uno “spettro” dai contorni incerti e lontani nel tempo ma si sta manifestando in tutta la sua reale immanenza con il rischio di causare una crisi idrica senza precedenti nel nostro paese.

Si potrebbe dire che si sta materializzando una sorta di “tempesta perfetta”, in grado di sconvolgere una volta per tutte l’ordine internazionale che avevamo imparato a conoscere dalla fine della Guerra fredda, guidato dagli Stati Uniti e dalle democrazie liberali ma in un quadro di crescente multipolarismo, tendenza che negli ultimi mesi ha subito una forte accelerazione. Dove ci porterà questa situazione, caratterizzata da grande incertezza e fluidità? Quali schemi seguirà la redistribuzione del potere globale? E, soprattutto, quale posizione ci sarà per l’Italia nel mondo “nuovo” di domani che verrà plasmato all’indomani del conflitto in corso?

Campo occidentale

Per tentare di delineare alcuni contorni, e fissare alcuni punti relativi al posizionamento e alle potenzialità dell’Italia sullo scacchiere internazionale, è essenziale innanzitutto partire dai “fondamentali” dell’Italia. Membro fondatore dell’Unione europea, della Nato, esponente del G7, è chiaro che la collocazione di Roma non può che rimanere salda nel campo dell’europeismo e dell’atlantismo. Le “fughe in avanti” abbozzate pochi anni fa nel tentativo (invero abbastanza maldestro) di rivendicare una presunta posizione autonoma dell’Italia, attraverso l’avvicinamento a Russia e Cina con l’adesione al progetto della Nuova Via della Seta, sono stati progetti rimasti poi lettera morta ma che, se avessero avuto dei seguiti effettivi, avrebbero messo oggi il nostro paese in una situazione decisamente imbarazzante.

Il ruolo dell’Italia non può essere dunque che nel campo occidentale, commisurato al peso di una potenza economica e militare di medio livello. È dunque alla luce di questi essenziali punti cardinali che si possono descrivere le proiezioni geopolitiche dell’Italia, e quindi derivarne le ambizioni possibili e realistiche.

Convergenza astrale

Cominciamo dall’Europa. In quanto paese fondatore dell’Ue, è chiaro che la posizione dell’Italia non può prescindere dall’adesione convinta a questo campo; ma questo non è sufficiente, poiché in questo momento Roma dovrebbe puntare a esercitare un ruolo di primo piano che negli anni scorsi per motivi sia politici che economici le era stato precluso.

L’autorevolezza internazionale di Mario Draghi, unita alla debolezza interna di un Macron “dimezzato” dopo le recenti elezioni parlamentari in Francia, e alla leadership ancora “immatura” di Scholz in Germania, rappresentano una congiunzione astrale particolarmente felice per consentire all’Italia di imprimere una direzione all’Ue in questa delicata fase. Cosa che il governo sta già facendo con successo, come testimoniato dalla decisione di accettare la richiesta di adesione dell’Ucraina all’Ue (fortemente voluta da Draghi per vincere molte resistenze), e anche dalla discussione sulla possibile imposizione di un price cap sul gas importato dalla Russia: una battaglia non facile per la divergenza di vedute con alcuni stati membri, ma che sta gradualmente prendendo piede.

L’unico problema di questa fase “dorata” per l’Italia nell’Unione europea è la ridotta finestra temporale, che coincide con la scadenza del mandato di Draghi e con l’incognita della maggioranza politica che risulterà dal voto nel 2023. È importante dunque continuare una “semina” produttiva in questi mesi per mettere al sicuro i risultati ottenuti grazie alla spinta dell’Italia.

L’unione con gli Usa

Il secondo asse direzionale della politica estera del nostro paese deve essere quello dell’atlantismo. Non si tratta di sudditanza agli Stati Uniti, ma della conferma di un’appartenenza a un sistema di valori comuni – quelli delle democrazie liberali – che non erano mai stati così sotto attacco. Riaffermare l’unità di Europa e Stati Uniti ha senso non solo da un punto di vista politico e strategico, ma anche economico.

In questo senso, sotto il profilo militare, l’intenzione di dare vita a un vero esercito comune europeo sarebbe un ottimo segnale in vista di una maggiore condivisione di responsabilità nell’ambito dell’Alleanza atlantica. Dal punto di vista economico, invece, dovrebbe essere interesse di entrambe le parti perseguire un’integrazione sempre più stretta soprattutto in settori industriali strategici che sono maggiormente esposti alla concorrenza di attori “ostili” come la Cina.

A tal proposito, sarà interessante vedere se e come si svilupperà l’iniziativa del Trade and technology council, forum di dialogo tra Ue e Usa che si è riunito per ora solo due volte ma che potrebbe costituire l’embrione per una cooperazione promettente in tema di commercio e investimenti.

I rapporti con il Mediterraneo

Spostandoci invece più vicino, il terzo pilastro della politica estera italiana non può che essere il Mediterraneo: vero mare nostrum per il nostro paese che rappresenta la dimensione ideale all’interno della quale una potenza di dimensioni medie come l’Italia può esprimere la propria proiezione geopolitica.

Dal Nordafrica ai Balcani occidentali, la regione offre opportunità uniche per rafforzare la leadership di Roma attraverso rapporti economici e strategici con i paesi dell’area, partner cruciali non solo per le forniture energetiche ma anche nell’ottica di regionalizzare le supply chains grazie al vantaggio comparato offerto dai settori manifatturieri di paesi come Tunisia e Marocco. Ecco perché l’Italia dovrebbe puntare fortemente su partner diplomatici come l’Iniziativa adriatico-ionica o il Forum 6+6 del Mediterraneo, con l’obiettivo di creare uno spazio di sicurezza politica ed economica.

Vocazione “mercantilista”

Infine, l’Italia dovrebbe continuare ad assecondare la propria vocazione “mercantilista”. Le esportazioni di prodotti “made in Italy” sono state il principale traino della (purtroppo debole) crescita economica dell’ultimo decennio, e la diplomazia economica si sta imponendo come attività sempre più importante a fianco di pratiche più “tradizionali” relative alla gestione dei rapporti internazionali. L’export pesa circa il 30 per cento del nostro Pil, e dovrebbe auspicabilmente arrivare al 50 per cento, ed è dunque un nostro interesse chiave fare in modo che la globalizzazione economica non soccomba sotto il peso delle frizioni geopolitiche.

Ci serve dunque una politica estera chiara, intransigente su alcuni valori non negoziabili, ma improntata a concretezza e realismo quando ci sono di mezzo gli interessi economici. Questo ci consentirebbe di mantenere lo sguardo anche oltre la crisi ucraina e di gestire le altre questioni strategiche globali, in un contesto complesso come quello attuale, mantenendo un approccio flessibile che ci consenta in futuro di non essere dipendenti da un numero ristretto di partner.

Insomma, le relazioni internazionali assomigliano in questa fase a un cubo di Rubik le cui facce devono essere ricomposte. Ci vorrà tempo, e ancora non conosciamo i colori delle facce di questo cubo; ma l’Italia, partendo da questi punti cardinali, può offrire il suo contributo verso una nuova stabilizzazione. 

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