«Stiamo iniziando a pensare che le autorità egiziane vogliano far morire Alaa in carcere». Le parole su Twitter di Ahdaf Soueif, scrittrice e zia di Alaa Abdel Fattah, attivista simbolo della rivoluzione egiziana, sono perentorie. Suo nipote è al 68esimo giorno di sciopero della fame. Ha una condanna inappellabile di cinque anni da scontare. E in carcere ne ha già passati almeno sette, in condizioni estreme, nei suoi ultimi otto di vita. I familiari temono che Alaa sia al limite. «La commissione per i diritti umani dice che i suoi valori vitali sono normali», continua Soueif. «Ma sappiamo che il ministero dell’Interno, anche in altri casi di prigionieri che poi hanno perso la vita mentre portavano avanti lo sciopero della fame, ha sempre detto così. Dobbiamo aspettare che stia letteralmente morendo per capire che in questo momento è in pericolo?».

L’attivista dalla sua protesta ha ottenuto solo il trasferimento dal carcere di Tora a quello di Wadi al-Natrun, un penitenziario in mezzo al deserto. Ora, dopo due anni ha carta e penna, libri e un materasso su cui dormire. Ma le concessioni si fermano qui. La mobilitazione internazionale, ancora una volta, non è sufficiente.

Non è bastato l’appello di 35 parlamentari britannici a Liz Truss, il Segretario di Stato per gli affari esteri del Regno Unito. Oppure la raccolta di scritti dell’attivista che continua a essere pubblicata e presentata in Europa e negli Stati Uniti. E nemmeno lo sciopero della fame a staffetta che in Italia va avanti da quasi due settimane. Il regime non molla. E Alaa non mangia.

Le visite negate

Ha preso la cittadinanza britannica ma le autorità gli vietano di ricevere una visita della delegazione consolare del Regno Unito. Questa settimana, gli è stata persino negata la possibilità di incontrare i rappresentanti della Commissione per i diritti umani egiziana. Un organismo che non è in opposizione al governo.

Anzi, è uno degli strumenti che il regime sta utilizzando per dare una nuova immagine di sé dopo che dal 2013 a oggi, cioè da quando il generale el-Sisi ha preso il potere con un colpo di stato, i detenuti politici sono almeno 60mila. «Alaa riceve il vassoio, non lo può rifiutare, e distribuisce il cibo ai suoi compagni. Beve solo latte e poco altro», dice la madre Laila Soueif.

«L’attivista è video sorvegliato, e la luce resta accesa 24 ore su 24, quindi non possono non sapere che dal vassoio non prende nulla». Così si perdono le speranze e si ripete, per l’ennesima volta, la strategia del regime egiziano che fa concessioni parziali e attende che scenda l’oblio sui soprusi che quotidianamente perpetra contro la società civile.

Lo ha fatto con Giulio Regeni, il giovane italiano trovato morto nel 2016 nella periferia del Cairo con evidenti segni di tortura. La procura di Roma ormai da tempo chiede i domicili dei quattro agenti accusati di aver sequestrato e ucciso il ricercatore di Fiumicello ma le autorità egiziane si rifiutano di fornirli perché per loro il caso è chiuso.

Un altro caso, ancora più simile a quello di Alaa, è la storia di Mustafa Kassem: cittadino egiziano e americano, dopo l’arresto nel 2013 è morto nel 2020 mentre conduceva uno sciopero della fame in protesta contro la sua detenzione. Anche su di lui è calato il silenzio.

Poco dopo il trasferimento dell’attivista da un carcere a un altro, la madre aveva affermato che la pressione internazionale stava svolgendo un ruolo cruciale. I contatti diplomatici tra Egitto e Regno Unito sul suo caso vanno avanti da mesi. A marzo c’è stato anche un colloquio tra il primo ministro del Regno Unito, Boris Johnson, e il presidente egiziano el-Sisi.

L’approccio soft di Londra

Ma ora che la situazione continua a essere in stallo, la famiglia del blogger sta iniziando a criticare l'approccio soft di Londra.

«Nel momento in cui mio fratello è diventato cittadino britannico, pensavamo che qualcosa sarebbe cambiato. Non solo perché finalmente aveva un altro passaporto, ma anche per le buone relazioni che esistono tra Egitto e Regno Unito», ha detto al Guardian Mona Seif, sorella di Alaa.

«Credo che il segretario per gli affari esteri britannico voglia mantenere una sorta di distacco dal caso e dalla nostra famiglia, nonostante la situazione sia sempre più critica. Questo silenzio è ormai assordante e credo che sia intenzionale».

La Gran Bretagna, così come altri paesi europei, ha forti legami con l’Egitto. Negli ultimi anni ha venduto al Cairo circa 28 milioni di euro di armi e proprio in questi mesi, i due paesi si stanno passando il testimone della conferenza sui cambiamenti climatici delle Nazioni unite che sarà a Sharm el-Sheikh il prossimo novembre.

© Riproduzione riservata