«Ho fatto un giro su una “Model S Plaid” col pilota automatico. Un modello potente, ma che guida morbida!», twittava il 4 marzo scorso Qin Gang, ambasciatore cinese a Washington. Al volante, a illustrare al diplomatico cinese i ritrovati tecnologici della nuova Tesla, sedeva l’uomo più ricco del mondo, con un patrimonio netto stimato in 201 miliardi di dollari. Elon Musk aveva mostrato all’ambasciatore anche la sua fabbrica di Fremont, in California, dichiarando all’agenzia di stato Xinhua che «la Cina e gli Stati Uniti hanno un grande potenziale di cooperazione nello sviluppo verde e a basse emissioni di anidride carbonica, come l’utilizzo di nuove energie e veicoli elettrici».

Le cose sono andate diversamente da quanto auspicato dal magnate neo proprietario di Twitter. L’amministrazione Biden ha irrigidito l’embargo tecnologico nei confronti di Pechino e, dopo la visita a Taipei di Nancy Pelosi, il governo cinese ha interrotto la collaborazione con gli Usa sui cambiamenti climatici. In compenso il XX congresso del Partito comunista ha promosso nel comitato centrale Qin, in predicato di diventare ministro degli Esteri.

Un piano per Taiwan

Musk ha dimostrato a Pechino che le sue idee grandiose non sono limitate al business. In un’intervista pubblicata recentemente dal Financial Times, il paperone sudafricano ha sostenuto che lo status di Taiwan dovrebbe essere quello di «una zona amministrativa speciale» che garantirebbe alla popolazione – bontà sua – «una soluzione più permissiva di quella raggiunta per Hong Kong». Peccato che la stragrande maggioranza dei taiwanesi non ne voglia sapere della “riunificazione” alla madrepatria perseguita dal Partito comunista cinese (Pcc). Qin comunque ha ringraziato (via Twitter) Musk per la sua richiesta di pace attraverso lo Stretto e la sua proposta, che coincide con il principio “Un paese, due sistemi”, con cui Xi vorrebbe sancire la “riunificazione pacifica” dell’isola alla Repubblica popolare cinese.

Nel suo “Lunch with the FT” con la direttrice Roula Khalaf, Musk si è lasciato sfuggire che Pechino gli ha «chiesto garanzie che non avrebbe venduto in Cina Starlink», i kit per collegarsi al sistema satellitare di accesso a internet a banda larga e a bassa latenza sviluppati dalla sua SpaceX, rivelatisi fondamentali per tenere attive le telecomunicazioni in Ucraina dopo la distruzione delle infrastrutture da parte degli invasori russi. Pechino non ha bisogno di rivolgersi a Musk per vietare Starlink nella Cina continentale e nella regione amministrativa speciale di Hong Kong, dunque è più che probabile che la sollecitazione si riferisse a Taiwan, che per le sue connessioni dipende da 15 cavi sottomarini e che ha stanziato 25 milioni di dollari per connettersi proprio a un sistema satellitare capace di mantenerne in funzione i sistemi di comando nel caso le connessioni convenzionali venissero tagliate.

Anche grazie ai profitti macinati in Cina, Musk ha scalato Twitter, che la propaganda di Pechino utilizza da tempo, anche se i suoi post sono bollati come “China-state affiliated media”. Alla vigilia del viaggio della terza carica degli Stati Uniti a Taiwan, l’ex direttore del tabloid nazionalista Global Times, Hu Xijin (che sul social media di Musk ha 534.193 follower), aveva sostenuto che «i nostri jet dovrebbero utilizzare qualsiasi tattica dissuasiva ma, se non riuscissimo a fermarla, credo che sarebbe giusto abbattere l’aereo di Pelosi». Il suo account era stato sospeso. «Sono il commentatore di attualità più popolare sui social media cinesi», ha scritto il 28 ottobre scorso Hu ritwittando la notizia di Bloomberg sul passaggio di mani di Twitter, «Spero che Twitter, con Musk come capo, rimuoverà l’etichetta che non corrisponde al mio status dopo il mio pensionamento, accetterà sinceramente le mie opinioni e rispetterà la voce della società cinese che io esprimo».

Il “facilitatore”

Con il XX congresso, che ha promosso al numero due della nomenklatura del Partito comunista cinese Li Qiang, con ogni probabilità prossimo premier cinese, Musk ha guadagnato un’entratura direttamente nel comitato permanente dell’ufficio politico, la leadership ristretta (sette membri) che governa la Cina. Quando era segretario di partito a Shanghai, Li ha fortemente voluto lo stabilimento di Tesla all’interno della nuova area di libero commercio di Lingang, ispirata alla Silicon Valley.

La prima gigafactory al di fuori degli Stati Uniti è stata costruita (con un investimento di 2 miliardi di dollari) in poco meno di un anno ed è entrata in funzione il 30 dicembre 2019 grazie al pieno sostegno delle autorità locali, che le hanno garantito assistenza anche per continuare la produzione durante la pandemia. Tesla è diventata la prima compagnia automobilistica straniera a cui il governo cinese ha riservato il privilegio di fare a meno di una joint-venture: niente divisione dei profitti con un partner locale, tassazione agevolata (al 15 anziché al 25 per cento) e maggiori protezioni dal trasferimento di tecnologia.

A settembre Musk ha registrato un nuovo record in Cina, dove sono state acquistate 83.135 Tesla, un quarto di quelle vendute dalla casa di Palo Alto in tutto il mondo nel terzo trimestre di quest’anno (343.830). Meno della metà delle oltre 200mila consegnate nello stesso mese dal colosso nazionale BYD, ma più delle dirette concorrenti cinesi Xiao Peng e Nio. A partire dal mese prossimo – terminato il rodaggio delle linee di produzione appena allargate – l’impianto di Shanghai sarà in grado di sfornare 22mila macchine a settimana: “Model 3” e “Model Y” per il mercato locale e per quelli europeo e australiano, alimentate dalle batterie Catl di Zeng Yuqun, uno degli uomini più ricchi del paese e lobbista del settore all’interno del comitato nazionale della Conferenza politica consultiva del popolo cinese.

Interessi coincidenti

Le relazioni tra Musk e i leader del Partito comunista sono reciprocamente vantaggiose. Le ultime stime dicono che quest’anno i cinesi acquisteranno 6 milioni di auto elettriche. Il tycoon ha conquistato una quota rilevante del mercato di sbocco più ambito dall’automotive. Per Pechino Tesla è un brand iconico presso la classe medio-alta, con la funzione di traino per lo sviluppo dei veicoli elettrici, tra i settori ai quali il Pcc ha dato priorità per l’ammodernamento dell’industria nazionale.

Ma c’è di più. Come chiarito dallo stesso Xi, la strategia di Pechino punta ad «approfondire il coinvolgimento della Cina nelle catene industriali globali. In questo modo, svilupperemo un deterrente efficace contro i tentativi di altri paesi di interrompere le nostre catene di approvvigionamento».

In definitiva le mosse dei gioielli di Musk remano contro quelle dell’amministrazione Biden di bloccare l’accesso della Cina a tecnologie più avanzate e di sostenere l’indipendenza di fatto di Taiwan. E contraddicono la narrazione del presidente Usa sulla contrapposizione tra autoritarismo e democrazie liberali. L’anno scorso, in occasione del centenario del Pcc, Musk ha twittato che «la prosperità economica che la Cina ha raggiunto è davvero sorprendente... Incoraggio le persone a visitare e vedere di persona».

Tesla è in compagnia di altri grandi marchi statunitensi che non possono resistere all’attrattiva di un mercato di 1,4 miliardi di persone. Secondo un report dello US-China Investment Project, nel 2021 le multinazionali a stelle e strisce hanno investito in Cina 8,4 miliardi di dollari. Nel porto di Ningbo nella Cina orientale è prevista per l’anno prossimo l’apertura di un deposito di Amazon per importare prodotti dalla piattaforma tedesca e britannica del colosso dell’e-commerce di Jeff Bezos. Mentre Starbucks, che ha appena festeggiato l’inaugurazione della sua caffetteria numero 6mila nella Repubblica popolare cinese, punta ad aprirne altre 3mila entro il 2025.

Ma – per quanto opportunistico – il sostegno politico che l’uomo più ricco del mondo può offrire a Pechino grazie al suo nuovo megafono virtuale globale rappresenta qualcosa che va decisamente molto oltre.

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