«Anno nuovo vita nuova». Il famoso detto è stato preso alla lettera dagli Emirati Arabi Uniti. Dal prossimo 1º gennaio 2022 la settimana lavorativa per i dipendenti statali si uniformerà a quella occidentale: si lavorerà dal lunedì al venerdì (fino a mezzogiorno).

L’obiettivo è «potenziare l’equilibrio tra lavoro e vita privata e migliorare il benessere sociale, aumentando allo stesso tempo le prestazioni per migliorare la competitività economica degli Emirati Arabi», fa sapere il governo tramite la tv pubblica.

È una decisione che gli occidentali residenti nel piccolo paese del Golfo arabo definiscono «illuminata» e che coincide con i festeggiamenti del 50esimo anniversario della nazione. «L’obiettivo degli Emirati è di dimostrare di essere un paese business friendly, attento alle dinamiche internazionali e interessato ad attirare persone e imprese con uno spirito globale» dice Matteo Terrevazzi, economista energetico italiano che lavora e vive ad Abu Dhabi.

Si tratta di una scelta a suo modo rivoluzionaria. Gli Emirati Arabi Uniti sono l’unico paese del Golfo Persico e nel mondo arabo, eccetto Marocco e Tunisia (dove già si lavora da lunedì a venerdì), ad adottare una misura di questo tipo. Una decisione che coincide con l’idea moderna che l’elite politica emiratina ha nei confronti della religione.

E il venerdì?

Nelle dichiarazioni governative riguardanti l’annuncio della notizia, non c’è molto spazio per il venerdì, che nell’Islam è il giorno sacro della settimana: dedicato alla preghiera e all’esenzione da ogni attività lavorativa nel settore pubblico, spesso anche privato. Ora sarà come un giorno qualsiasi.

Per la preghiera del venerdì, le autorità emiratine hanno fissato un orario preciso (13:15) che vale per tutto l’anno. Una novità visto che l’orazione di mezzogiorno si svolge in orari diversi a seconda del cambiamento delle stagioni. «Devo dire che c’è grande eccitazione: per i colleghi emiratini l’idea di lavorare il venerdì, che ovviamente è un giorno di culto, è più che bilanciata dal pensiero di fare una settimana corta», dice Terrevazzi. «La mia azienda si è già adeguata al nuovo orario, senza però dare la flessibilità di lavorare la mezza giornata del venerdì in smart working».

I privati, infatti, sono liberi di scegliere se adeguarsi ai nuovi orari, ma sembra una decisione quasi obbligata se si vuole mantenere i ritmi del mercato nazionale.

Le ripercussioni economiche

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«Questo cambiamento migliorerà l’integrazione del settore bancario negli Emirati Arabi Uniti con la comunità bancaria internazionale ed eliminerà il divario che esisteva in passato», ha detto il ministro delle Risorse umane del paese. Ma non solo. Secondo le autorità emiratine la nuova settimana lavorativa di quattro giorni e mezzo avrebbe anche ricadute positive sulla produttività dei dipendenti.

Sono diversi i paesi europei pionieri in questo: l’Islanda, per esempio, ha sperimentato dal 2015 al 2019 una settimana lavorativa di quattro giorni per i suoi 2500 lavoratori pubblici e i primi risultati evidenziano che la produttività non è calata, bensì in alcuni casi è anche aumentata.

Ma nel Golfo Persico gli Emirati sono l’unico stato ad avere una settimana corta e orari lavorativi sfasati con i vicini. Questo ha anche ripercussioni per il settore privato: alcune aziende di Abu Dhabi e Dubai spesso gestiscono le operazioni dell’intera regione mediorientale. «Saranno di fatto obbligati ad adattarsi alle nuove misure ma senza il beneficio di avere la domenica davvero di chiusura dato che in molti paesi clienti è ancora un giorno lavorativo», dice Terravazzi. «Parlando con alcuni amici del settore privato ho la sensazione che per loro i tempi di lavoro si allunghino».

La speranza è che anche gli altri stati nella regione seguano la strada degli Emirati. Le necessità dei paesi del Golfo di allinearsi con i mercati occidentali è dettata soprattutto dall’obiettivo raggiungere l’indipendenza economica dal petrolio. Circa il 30 per cento del Pil degli Emirati è frutto delle vendite del greggio, il paese rifornisce il 4 per cento del mercato mondiale.

Numeri che hanno portato a uno sviluppo economico rapido, ma che di fronte all’impellenza di salvare il pianeta, costringono il paese, così come già accade nella vicina Arabia Saudita, a modificare il proprio modello di business, mettendo però in discussione sia le proprie tradizioni sia le radici religiose.

Né islamismo né laicità

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Non tutti sono d’accordo: una parte della popolazione, quella più anziana e conservatrice non è entusiasta della nuova misura.

L’Emirato di Sharja ha annunciato che manterrà il venerdì come giorno festivo oltre a sabato e domenica, ma a dettare la linea politica dei sette emirati è Abu Dhabi, centro decisionale del paese. E negli anni la leadership emiratina ha seguito un atteggiamento di rispetto nei confronti dei dettami islamici, cercando però un approccio che favorisca l’economia nazionale.

David B. Roberts, assistente al King College di Londra scrive tra le righe di Foreign Affairs che la classe dirigente emiratina ha «la forte convinzione di tenere separata la Chiesa dallo stato all’interno del mondo arabo».

Non si tratta di secolarizzazione ma di far procedere politica e islam su due binari paralleli senza che la religione freni lo sviluppo del paese. Ciò ha portato a una politica estera che, per motivi economici, guarda verso gli Stati Uniti, storico alleato dell’Arabia Saudita, paese competitor degli Emirati nella regione.

L’accordo di pace con Israele siglato nell’agosto del 2020 va proprio in questa direzione. Non significa che siano uno stato laico, l’Islam è ancora un elemento fondante della società e catalizza consenso.

Basta pensare che soltanto lo scorso anno il paese ha approvato una legge che criminalizza l’omicidio d’onore. L’elite politica di Abu Dhabi ha una strategia che si esplicita con l’allineamento dei fine settimana a quelli occidentali: colmare il divario economico con i sauditi e presentarsi agli occhi del mondo come uno stato progressista nel mondo arabo, con lo scopo finale di potenziare la propria economia ed essere sempre meno indipendenti dalla “grey economy”.

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