Questo fine settimana i leader dei 55 paesi dell’Africa sono invitati al summit dell’Unione africana che ha sede ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia. È lì che ogni anno centinaia di politici e diplomatici dovrebbero incontrarsi per discutere dei temi che più possano promuovere pace, sovranità nazionale e sviluppo. Ma in maniera crescente, nonostante uno degli obiettivi dell’Ua sia la promozione della pace, della sicurezza e della stabilità, raramente l’incontro è il teatro in cui si affrontano e risolvono temi chiave. Come oggi sono la guerra in Sudan, le tensioni interne all’Etiopia, le prossime elezioni in Sud Sudan o la crisi del Sahel.

Non solo perché molte delle nazioni coinvolti non saranno rappresentate (come il Mali e il Burkina Faso), ma perché l’Unione africana – come altre organizzazioni multilaterali – sembrerebbe sempre più inerme nel mettere in atto meccanismi di risposta collettiva alle crisi.

E uno degli effetti di questa impossibilità di risolvere i conflitti interni spinge sempre di più gli stati del continente ad affidarsi non tanto ai caschi blu delle Nazioni unite o a contingenti multilaterali, ma a mercenari o alle cosiddette “compagnie militari private”.

Una delle tante

Fino all’anno scorso, anche a causa di una sorta di ossessione occidentale, l’Africa è stata descritta prevalentemente in relazione alla presenza della Wagner, la compagnia militare privata russa che fino a quest’estate faceva capo a Prigožin, l’ex cuoco di Putin diventato il deus ex machina dell’espansione militare di Mosca in Africa. Dal Sahel – ovvero Mali, Burkina e probabilmente Niger – alla Repubblica Centrafricana, l’Africa sembrava invasa dai Wagner. Mentre invece il dato che più dovrebbe far riflettere è il fatto che Wagner è solo una delle tante compagnie militari private nel continente.

Oggi, per esempio, nella Repubblica Democratica del Congo, dove all’est del paese ricco di minerali l’esercito è in guerra con una dozzina di gruppi armati – e in particolare l’M23 – non ci sono solo i contingenti dell’Onu o dei paesi limitrofi. Ma anche un migliaio di soldati che dall’anno scorso lavorerebbero per due compagnie militari private congolesi che però farebbero capo a un rumeno. Si tratterebbe di un trend globale, come spiega uno studio pubblicato dal Consiglio europeo, ma che è particolarmente presente in Africa.

Lì, le compagnie private militari vengono utilizzate per proteggere impianti energetici, edifici governativi, infrastrutture private, attori locali e personale straniero e per fornire addestramento di polizia e militare e intelligence.

Le conseguenze

Ma quali sono le conseguenze della loro presenza in uno stato debole, dove la presenza delle istituzioni non raggiunge tutto il territorio, l’esercito è fragile e soprattutto il paese rischia ciclicamente di essere minacciato da conflitti?

La Repubblica Centrafricana può essere un buon esempio da questo punto di vista, non tanto per soffermarsi per un’ennesima volta sulla Wagner, ma per sottolineare che la presenza di compagnie militari private in un contesto fragile può, da una parte, contribuire a portare una sembianza di stabilità. Dall’altra però rischia di spingere i governi a evitare di trovare soluzioni durature a cause strutturali – come la povertà, l’emarginazione – attraverso dialogo e redistribuzione delle ricchezze.

Quando la Wagner è arrivata in Centrafrica nel 2018, lo stato controllava appena il 20 per cento del territorio, in particolare intorno alla capitale Bangui e nell’ovest del paese. Nel 2013 era scoppiata una guerra civile trasformatasi in un conflitto etnico-religioso tra cristiani e musulmani che aveva spinto circa un milione di persone a scappare nei paesi limitrofi. Nonostante i caschi blu dell’Onu e la presenza militare francese avessero ridotto l’intensità dei conflitti, nessun alleato tradizionale era stato in grado di fornire una soluzione duratura al paese.

Per questo, e anche su consiglio della Francia, il presidente centrafricano Faustin-Archange Touadéra si rivolse alla Russia che non metteva piede nel paese da 40 anni. Per Mosca si trattava di un’ottima occasione per espandere la sua presenza sul territorio e guadagnare sostegno diplomatico. Appena arrivati, i soldati della Wagner svolgevano più che altro il ruolo di istruttori militari per l’esercito locale e si occupavano, indirettamente, della sicurezza del presidente.

Ma con il passare del tempo, soprattutto dopo la firma dell’accordo di pace nel 2019 e durante le elezioni presidenziali del 2020, l’organizzazione è diventata sempre più presente nell’ecosistema politico e securitario del paese.

Secondo diverse fonti, i suoi dirigenti entrano ed escono dagli uffici della polizia come se fossero a casa, occupano postazioni e caserme e sono accusati di violenze contro le forze armate e la polizia e, secondo diversi rapporti di organizzazioni non governative, anche di abusi sui civili.

Tuttavia, nell’immaginario del popolo centrafricano i soldati russi non sono solo mal giudicati – o meglio – considerati esclusivamente come una forza di occupazione straniera che ha un peso non solo nella politica del proprio paese ma anche nell’economia a causa di sfruttamenti di risorse naturali come oro, diamanti e legno.

Per molti – ed è ciò che rende anche il ruolo dell’Europa più difficile – i soldati della Wagner rappresentano anche coloro che hanno contribuito, durante le elezioni del 2020, a evitare che i gruppi armati della Cpc rovesciassero il governo di Touadéra. E in uno stato che ha trascorso decenni in un susseguirsi di crisi politiche, militari e umanitarie, l’aver scongiurato un’ennesima guerra non è un dettaglio da poco. Non solo, per molti politici, gli altri alleati tradizionali non avevano proposto nulla per difendersi dall’offensiva dei gruppi armati.

Esercito debole

Se però nel breve termine, la compagnia militare russa ha quindi contribuito a stabilizzare il paese insieme alla presenza dei caschi blu dell’Onu e delle forze ruandesi, ha anche spinto il governo ad affrontare le cause strutturali della crisi centrafricana attraverso un approccio militare e non politico, ovvero di dialogo e di redistribuzione economica.

Secondo un recente libro intitolato Wagner, inchiesta nel cuore del sistema Prigojine scritto da Osbonr e Zufferey, la compagnia militare russa riceverebbe il 20 per cento del bilancio nazionale centrafricano in un paese dove più della metà della popolazione è esposta a una crisi umanitaria.

Inoltre, l’indebolimento apparente dei gruppi armati avrebbe portato il governo a sottovalutare una riforma essenziale per la costruzione di uno stato forte: quella dell’esercito. Uno dei principali obiettivi del paese dopo la guerra del 2013 era infatti la riforma dell’esercito al fine di renderlo più efficiente attraverso un reclutamento che rispecchiasse la diversità etnica del paese e una maggiore presenza in territori che erano stati spesso abbandonati.

Ma ancora oggi, nonostante l’esercito sia presente nella maggior parte del territorio, è ancora debole soprattutto per via di opache procedure di reclutamento e di un magro bilancio.

Durante il Dialogo repubblicano del 2022, i cittadini non si lamentavano tanto dei russi, ma dei poveri soldati mandati a migliaia di chilometri lontani dalla capitale che spesso, per via di uno stipendio risibile, sono i primi a chiedere soldi alla popolazione.

Costruire il consenso

Infine, la presenza massiccia dei soldati della Wagner ha avuto un’ulteriore conseguenza che potrebbe essere problematica per una pace duratura: ha ridotto il dialogo tra governo, opposizione democratica e gruppi armati. Forte della sedicente vittoria militare sul terreno – oggi i gruppi armati sono prevalentemente nelle periferie del paese – il governo ha anche trovato meno ragioni di confronto con le opposizioni e di risolvere cause strutturali della costante crisi politica.

Ma come ha insegnato la storia del paese e dei suoi vicini, in un territorio vasto dove lo stato è ancora fragile il consenso non si può costruire, nel lungo periodo, militarmente. Vale per il Centrafrica, ma anche per Mali, Burkina Faso, Niger e Repubblica Democratica del Congo. Per questo, i leader dell’Unione africana dovrebbero dedicarsi ad affrontare la presenza massiccia di compagnie militari private nel continente.

Nel 1977, l’organizzazione aveva adottato una convenzione contro il mercenarismo. Ma ancora oggi 29 stati non l’hanno ratificata e, nonostante il testo sia evocato in qualche ministeriale, oggi rischia di finire nel dimenticatoio.

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