Doveva essere la domenica in cui il «bla bla bla» sul clima, come lo chiama Greta Thunberg, diventava ambizione concreta. Con il G20 al termine a Roma e la Cop26 che inizia a Glasgow, il momento era perfetto. E invece ai venti Grandi non è servito granché il rito propiziatorio di tirare la monetina nella fontana di Trevi. Antonio Guterres, il segretario delle Nazioni Unite e cioè dell’istituzione multilaterale per definizione, ha lasciato Roma con parole dure: «Le mie speranze sono disattese».

Ma «continuiamo a sognare», ha detto poco dopo Mario Draghi in conferenza stampa, «il principale successo di questo vertice è quello di mantenere vivi i nostri sogni». I 20 radunati sulla Nuvola lasciano in consegna appunto sogni, di concreto c’è poco.

Una trappola semantica

Quando i leader raggiungono un accordo sul paragrafo sul clima, i rumours riferiscono un applauso generale. Poi c’è una notizia che per poco illude ed entusiasma la società civile raggruppata nel Media Center: nel communiqué finale i 20 parlano di sforzi per tenere il surriscaldamento globale entro la soglia del grado e mezzo da qui al 2100.

La presidenza italiana rivendica «la novità di linguaggio: in questo G20 i paesi ricchi riconoscono il valore scientifico del grado e mezzo». L’obiettivo di 1,5 gradi «è quello giusto - dice Giuseppe Onufrio, il direttore di Greenpeace Italia – peccato che manchino le azioni». C’è poi, a proposito di linguaggio, una trappola semantica nella dichiarazione dei 20, e lo dimostrano le dichiarazioni diametralmente opposte di alcuni leader a conclusione del vertice: Boris Johnson, che nel Regno Unito ospita Cop26, ribadisce che bisogna arrivare a emissioni zero entro il 2050. Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov parla del 2060. Ma quindi qual è l’intesa?

«Circa la metà del secolo»

Nella dichiarazione finale si riconosce l’importanza chiave di raggiungere la carbon neutrality «entro o attorno alla metà del secolo», quindi 2050 per qualcuno, oppure «circa» per chi preferisse invece il 2060. «I venti Grandi non hanno tirato… Come dite voi? Un calcio di rigore?».

Jorn Kalinski cerca le parole giuste mischiando inglese e italiano, è venuto da Berlino qui a Roma per portare un po’ di rappresentanza della società civile; lui è il coordinatore G20 di Oxfam. Legge e rilegge la dichiarazione finale del vertice e non si capacita; si dice «disappointed», deluso e scontento. «Mentre questo G20 finisce, Cop26 comincia. Perciò i Grandi dovevano dare un segnale forte e chiaro, un assist a questa conferenza Onu sul clima che inizia a Glasgow».

Il carbone e i soldi

Un impegno concreto sul clima, con una data e un obbligo chiari, c’è. Ed è questo: «Entro la fine di quest’anno metteremo fine ai finanziamenti pubblici internazionali per nuovi impianti di carbone non abbattuto». Gli impegni sono internazionali, non riguardano gli impianti domestici. Kalinski, che ha seguito tutte le fasi negoziali, nota pure uno scarto con «le versioni precedenti del negoziato, dove l’impegno per la dismissione era allargato a tutti i combustibili fossili, non solo carbone ma anche gas».

I riferimenti contenuti nel testo, alla «circular carbon economy», sono inoltre cuciti sui desiderata dell’Arabia Saudita e piacciono anche all’Australia; entrambi questi paesi sono nella lista dei «sabotatori» di Cop26, come ha rivelato di recente un leak sulla loro attività lobbistica anti-clima. Anche l’impegno finanziario dei venti paesi, quello «di mobilitare cento miliardi di dollari all’anno», non è in realtà che il promemoria di una promessa già fatta e tradita.

«Già da tempo era stato preso l’impegno di supportare la transizione nei paesi a basso e medio reddito con cento miliardi di dollari all’anno, e invece sono stati effettivamente elargiti solo poco più di ottanta miliardi», fa il conto Jorn Kalinski.

Manca il piano

A proposito poi di linguaggi, oltre alla «metà del secolo circa» c’è un’altra trappola nascosta nel testo, e che dice tutto su quanto sia davvero ambizioso. «Ci impegniamo a migliorare e ad aggiornare, where necessary, qualora sia necessario, i nostri Ndc». Ndc sta per “contributi promessi a livello nazionale”.

L’accordo di Parigi prevede che ciascun paese debba rendicontare all’Onu, con uno specifico piano (Ndc), cosa intende fare di concreto per ridurre le emissioni e per il cambiamento climatico. Il problema è che i G20 sanno già che i loro piani sono inadeguati: «In vista di Cop26, le Nazioni Unite hanno già sancito che se ci si fermasse a quei piani, altro che 1,5: saremmo sui 2,7 gradi», ricorda Kalinski. Il where necessary è subito.

Da Roma a Glasgow

C’è poi il caso italiano. L’Italia ha la copresidenza di Cop26, ma è la prima ad arrivare a Glasgow senza aver fatto i compiti. «Il piano integrato energia e clima è ancora quello del governo Conte», dice Onufrio di Greenpeace Italia. «Aspettiamo ancora da mesi quello del governo Draghi, che dovrà essere coerente coi nuovi obiettivi europei».

In pratica, quando era premier Conte, bisognava raggiungere la riduzione di emissioni del 40 per cento entro il 2030. Ora l’obiettivo Ue è salito al 55 per cento.

«Però il governo Draghi non provvede ad adeguarsi con un piano nuovo». Mentre nelle conferenze stampa e sui media Cina e India sono indicati come i grandi sabotatori delle ambizioni climatiche, la verità è che di eroi climatici ce ne sono pochi. In più la presidenza Draghi chiude il vertice con un’idea di governance orientata sempre più sui privati: «Sul clima gran parte dello sforzo dei governi sarà allineare le iniziative pubbliche agli incentivi che il settore privato ha per entrare nel settore».

Prospettiva opposta a quella di C20, l’articolazione della società civile al G20: «La negoziazione delle regole non può essere fatta assieme a chi guida interessi privati. Soprattutto quando invece i cittadini, come noi, sono sempre più tagliati fuori».

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