La cinquantatreenne giornalista americano-palestinese Shireen Abu Akleh del network qatarino Al Jazeera è rimasta uccisa mercoledì all’alba nella cittadina palestinese di Jenin durante un’incursione dell’esercito israeliano. La televisione di Doha ha immediatamente accusato i soldati dello stato ebraico di aver fatto fuoco sulla cronista specializzata nella copertura dei territori palestinesi definendolo un “caso lampante di omicidio”.

«Le forze di occupazione israeliane hanno assassinato a sangue freddo la corrispondente dalla Palestina di Al Jazeera Shireen Abu Akleh», ha dichiarato la rete in un comunicato, aggiungendo che come si vede nei materiali video «indossava una veste che la identificava chiaramente come giornalista».

In un briefing confidenziale su Zoom poche ore dopo l’episodio, fonti dell’Idf hanno fatto sapere di non aver ricostruito con certezza la dinamica dell’incidente, criticando la controparte palestinese per aver rifiutato una commissione d’inchiesta coordinata. E hanno virato sul contesto, ricordando come circa il 50 per cento dei terroristi coinvolti nell’ondata di attentati in corso in Israele provengano proprio da Jenin.

Ricostruzioni opposte

Da parte sua il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha dichiarato su Twitter che «secondo i primi elementi che abbiamo in mano, c’è una possibilità non trascurabile che la giornalista sia stata colpita dagli uomini armati palestinesi». Lo scrive malgrado i colleghi di Abu Akleh presenti sul posto affermino che in quella fase non c’erano sparatorie contro gli israeliani.

Il premier sostiene invece che i guerriglieri di Jenin facessero fuoco in modo «scombinato, impreciso e caotico», mentre le forze israeliane rispondevano in modo «il più possibile preciso e responsabile».

I vertici dell’esercito si sono mantenuti prudenti, ma sui canali social l’unità dell’Idf deputata alla comunicazione, che da diversi anni fa propaganda in diverse lingue sulle piattaforme (spesso con toni poco ufficiali), ha diffuso un video per accusare i palestinesi.

Si vede un militante che spara mentre qualcuno parla di un soldato rimasto a terra – secondo la ricostruzione, non essendoci vittime fra i soldati israeliani, sarebbe la prova che i guerriglieri avevano colpito la giornalista. Ma B'Tselem, una Ong israeliana, ha immediatamente mostrato come le immagini non abbiano nulla a che vedere con la morte di Abu Akleh, avvenuta a centinaia di metri di centro abitato di distanza.

L’escalation

L’episodio ha suscitato un’ondata di indignazione sia da parte palestinese sia da parte degli attori internazionali. Il Qatar, che non ha normalizzato i rapporti con Israele ma intrattiene relazioni di fatto compreso l’accredito dei giornalisti di Al Jazeera presso le autorità israeliane, ha addirittura parlato di “terrorismo di stato”.

Il contesto è un’escalation di violenze che dura da più di un mese e mezzo, e che ha attirato l’attenzione in particolare su Jenin e sull’annesso campo profughi. Dalla seconda metà di marzo è iniziata la peggiore ondata di attentati nelle città israeliane all’interno della linea verde dal 2015-2016.

Ad oggi 19 israeliani sono rimasti uccisi in 7 diversi episodi di violenza: da sparatorie a sangue freddo nei centri abitati, compresa Tel Aviv, fino all’attentato di Elad la scorsa settimana in cui due palestinesi si sono messi a colpire passanti all’impazzata con coltelli e asce, uccidendo tre persone.

Ordinaria amministrazione

Lo scorso mese ci sono state anche forti tensioni a Gerusalemme. La crescita esponenziale di visitatori israeliani al Monte del tempio/Spianata delle moschee negli ultimi anni ha dato àdito a teorie palestinesi secondo cui lo stato ebraico avrebbe in animo di alterare lo status quo del sito sacro sia per gli ebrei sia per i musulmani.

Malgrado l’assenza di prove concrete in questo senso, tanto è bastato per scatenare duri scontri fra fedeli e forze israeliane nel periodo in cui coincidevano la Pasqua ebraica e la festività islamica del Ramadan. Ma sono prevalentemente gli attacchi – che risultano essere iniziative individuali spontanee prive di una regia coordinata – ad aver scatenato la reazione dell’esercito israeliano nei territori. E siccome come detto parecchi attentatori provenivano dalla zona di Jenin, la città è diventata il bersaglio principale delle rappresaglie.

È utile ricordare che l’operazione durante la quale è rimasta uccisa la giornalista di Al Jazeera Shireen è ordinaria amministrazione nella Cisgiordania occupata. Se non fosse rimasta tragicamente colpita la corrispondente di un importante network internazionale, in pochi avrebbero avuto notizia del raid.

Negli accordi di Oslo Israele aveva accettato di cedere la gestione della sicurezza nelle zone classificate come “Area A” – fondamentalmente tutti i principali centri abitati – all’Autorità Palestinese, ma di fatto invece ha continuato a fare incursioni, con o senza coordinamento con le autorità di Ramallah, ogniqualvolta lo ritenesse necessario. Jenin e la zona circostante rappresentano l’area A più grande della Cisgiordania.

I precedenti

La cittadina e il suo campo profughi – che come quasi tutti i campi palestinesi risale al 1948 e dunque è costruito e si presenta alla stregua di un quartiere svantaggiato – erano destinazione di shopping per tanti arabo-israeliani che approfittavano dei prezzi più bassi rispetto all’interno della linea verde.

Ma con l’ondata di attentatori provenienti dalla zona Israele ha chiuso a questo tipo di turismo a scopo punitivo, oltre a provvedere alla demolizione delle case dei terroristi secondo il controverso protocollo militare.

Da diverso tempo Jenin era diventata una fonte di forti preoccupazioni non solo per gli apparati di sicurezza israeliani, ma anche per quelli palestinesi che non osano più penetrare nella zona vista come bastione dei militanti di Hamas, Jihad islamica e altri gruppi estremisti.

Dopo un attentato suicida che aveva ucciso 28 israeliani durante la cena pasquale del 2002 a Netanya, a nord di Tel Aviv, il 3 aprile dello stesso anno il governo a guida Ariel Sharon aveva lanciato la più sanguinosa offensiva della seconda intifada. L’operazione aveva come obiettivo proprio il campo profughi della cittadina, popolato da palestinesi prevalentemente originari di Haifa, e noto negli ambienti militari israeliani come “il nido dei serpenti” proprio per il numero di attentatori suicidi.

Dopo la resa degli ultimi 35 militanti il giovedì 11 aprile successivo, secondo la giornalista di guerra “Marie Colvin”, la famosa inviata di guerra inglese poi rimasta uccisa in Siria, per due giorni gli israeliani impedirono ai giornalisti di entrare nel campo. Poi divenne evidente l’enormità del bagno di sangue nella battaglia che lo stesso esercito israeliano definì «la guerriglia urbana più dura degli ultimi trent’anni».

Resistenza culturale

Il campo è anche sede di un noto polo culturale nella Cisgiordania settentrionale, il “Jenin Freedom Theatre”. Fondato da Juliano Mer Khamis, un artista ebreo-israeliano per parte di madre e cristiano arabo-israeliano per parte di padre, il teatro fondato nel 2006 ha avuto un successo internazionale per la sua promozione di una resistenza “culturale” all’occupazione israeliana.

Mer Khamis, che aveva servito nell’esercito israeliano per poi divenire un radicale attivista filo-palestinese, è stato ucciso da dei sicari di fronte al teatro nel 2011, in un delitto che ad oggi rimane senza colpevoli comprovati. Il rischio è che finisca così anche per la giornalista Abu Akleh.

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