Slitta ancora l’accordo tra i 27 paesi dell’Unione europea per l’approvazione del prossimo pacchetto di sanzioni nei confronti della Russia.

Gli stati membri non sono ancora riusciti a trovare l’intesa sulle tempistiche per introdurre l’embargo nei confronti del petrolio russo. Ungheria, Slovacchia e Bulgaria chiedono deroghe alle tempistiche proposte dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che mercoledì ha annunciato all’interno dell’Europarlamento di arrivare all’indipendenza dal greggio di Mosca entro i prossimi sei mesi.

Da Budapest il primo ministro Viktor Orbán si fa portavoce in maniera indiretta anche degli stati poco convinti a introdurre pesanti sanzioni energetiche, come la Germania. Il premier ha detto che all’Ungheria serviranno almeno cinque anni per attutire gli effetti dell’embargo e ha inviato indietro la proposta alla Commissione europea per una revisione. Servono anni e «fondi» dice Orbán, pensando già di battere cassa a Bruxelles.

«Possiamo discutere di quanti anni un paese ha bisogno per adeguarsi all’embargo, ma collegarlo a qualcosa che non ha nulla a che fare con la crisi ucraina, come i fondi per altri motivi, è inaccettabile», ha risposto Josep Borrell l’Alto rappresentante per la politica estera Ue.

È apparso più ottimista invece il commissario per gli Affari economici dell’Ue, Paolo Gentiloni, che conta di raggiungere «un percorso comune» e arrivare a un embargo graduale nei prossimi nove mesi.

Il Corper, Comitato dei rappresentanti permanenti Ue, si è preso del tempo per decidere e conciliare le diverse posizioni. Fonti interne hanno detto alla stampa che verrà convocato un altro incontro nel fine settimana e si punta a raggiungere un accordo e approvare il sesto pacchetto di sanzioni entro lunedì.

A Mosca, invece, è stato convocato al ministero degli Esteri l’ambasciatore britannico in segno di protesta contro le ultime sanzioni introdotte dal Regno Unito che vietano l’export verso la Russia dei servizi di consulenza e gestione della contabilità. «Londra ha scelto in modo definitivo il confronto aperto con la Russia», dicono i russi avvertendo che «continuare su questa linea porterà alla distruzione definitiva delle relazioni bilaterali».

L’apertura di Zelensky

Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha detto ieri che un accordo di pace si raggiungerà nel momento in cui le truppe russe si ritirano «sulle posizioni del 23 febbraio», ovvero il giorno prima dell’invasione.

Le dichiarazioni di Zelensky fanno intendere che per il momento non pretende la restituzione della Crimea, già annessa dai russi nel 2014, e neanche dei territori controllati dai separatisti nel Donbass. Sono questioni che secondo l’ufficio della sua presidenza il presidente ucraino deve trattare in persona con Vladimir Putin.

Zelensky ha anche rivolto un appello a Scholz invitandolo a inviare un «segnale forte» presentandosi in visita a Kiev per il prossimo 9 maggio, giorno in cui a Mosca si celebra il 77esimo anniversario della vittoria sulla Germania nazista.

Per quel giorno, la Reuters scrive che il presidente Vladimir Putin si prepara a lanciare un messaggio «apocalittico» all’occidente facendo volare nella consueta parata militare l’aereo di comando Il-80 “doomsday”, deputato a trasportare i vertici del Cremlino in caso di conflitto nucleare. La guerra ucraina si gioca anche su un piano simbolico.

In risposta alle celebrazioni russe del prossimo lunedì, Joe Biden ha annunciato che in quel giorno approverà una misura per velocizzare l’invio di armi americane verso Kiev, oltre a prevedere un ulteriore carico da cento milioni di dollari.

 

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