Alla fine sarà l’Alleanza atlantica – patto politico-militare fondato su un impianto di norme e valori comuni – a riavvicinare la Turchia agli standard liberaldemocratici, o sarà piuttosto la deriva sultanista di Recep Tayyip Erdogan, di baratto in baratto, a trascinare la Nato verso l’allineamento con le sue definizioni di minaccia?

Mentre Sergej Lavrov approda ad Ankara, pesa molto l’ostruzione turca all’allargamento Nato: l’ingresso di Svezia e Finlandia costituirebbe il colpo più clamoroso alla strategia di Putin, mirante a dividere il campo europeo. E invece, dopo essersi tenuta alla larga dalle sanzioni contro Mosca, Ankara agisce a mani libere, perseguendo in modo eclatante il proprio interesse del momento.

Da ultimo, ha offerto gratis agli ucraini il drone armato per il quale i cittadini lettoni hanno organizzato il crowdfunding: operazione esibita come fattività esemplare e polemicamente rivolta a quell’Europa continentale che invece si ostina a cercare una via politica.

Della Russia la Turchia resta cliente (missili S-400) e rivale sui campi di battaglia, in un arco di crisi che va dal Nord Africa al Caucaso, passando per la Siria. Al tempo stesso, Erdogan offre i propri buoni uffici per la mediazione fra Mosca e Kiev, controlla gli stretti all’ingresso del mar Nero, offre aiuto a sminare i porti ucraini per far defluire il grano. Da marzo a oggi Ankara ha intensificato le ostilità nel vicinato, contro i curdi della Syrian defense forces nel Rojava così come nel Kurdistan iracheno, dove il governo di Erbil le concede di fatto piena libertà d’azione.

Purgato degli elementi golpisti (condannati per terrorismo), l’esercito turco ha varcato il confine sud in una serie di offensive militari, costruendo una zona d’occupazione d’intesa con milizie di jihadisti locali, ricondizionate alla bisogna. Qui è iniziato il trasferimento rifugiati siriani, secondo un piano di ingegneria etno-demografica che dà vita a una “cintura araba” volta a dividere popolazioni curde.

Mentre partecipa alle esercitazioni navali nel Baltico, in sede Nato la Turchia blocca ogni formato di collaborazione e consultazione con l’Unione europea, compresi gli esercizi di gestione delle crisi. La sola veste in cui gli ambasciatori del North Atlantic Council possono incontrarsi è per parlare di Bosnia (questa iniziativa venne lanciata congiuntamente prima del 2004, anno-chiave nella vicenda di Cipro). Al di fuori di questa cornice, la collaborazione è fatta solo di contatti staff-to-staff.

Certo, il precedente della “crisi migratoria” europea non promette bene, considerato come l’accordo con la Turchia del 2016 in materia di contenimento migratorio, annunciato in conferenza stampa da Erdogan e Merkel, abbia avuto implicazioni in materia di diritti fondamentali. E tuttavia, ciò che oggi il governo turco chiede – nuovi caccia e la testa degli attivisti curdi – può essere concesso solo da Usa e Svezia, che non paiono intenzionati a cedere.

Quale condizione per non porre il veto sull’inclusione nella Nato Erdogan ha chiesto alla premier svedese nientemeno che la rimozione del ministro della Difesa. Al tempo stesso, nel voto di fiducia in parlamento l’ago della bilancia è diventata la deputata di origine curdo-iraniana Amineh Kakabaveh, della quale la Turchia in modo piuttosto bizzarro esige l’estradizione.

Il leader dei socialdemocratici svedesi, per parte sua, ha confermato alla deputata il rispetto dell’accordo per aiutare finanziariamente l’autogoverno del Rojava, lo stesso che Erdogan annuncia di voler spazzare definitivamente via con una nuova operazione di terra, che si spingerà fino a 30 km in profondità oltre confine, «a ripulire Manbij e Tal Rifaat», isolando di fatto Kobane.

Gli svedesi non intendono inserire le Ypg curdo-siriane nella lista nera del terrorismo, e restano impegnati a chiedere la scarcerazione del leader del partito Hdp, uno dei tanti casi che vede la Turchia sfidare le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Significativamente, gli americani stessi la scorsa settimana hanno tolto le restrizioni agli investimenti nel nord est della Siria.

Calo di consensi

Una delle spiegazioni dell’attivismo di Erdogan attorno alla guerra in Ucraina si incentra sull’erosione, per non dire lo sgretolamento, del fronte di consenso domestico: un declino che proietta inquietudine nelle 1.150 stanze del palazzo presidenziale in vista delle elezioni previste per l’anno prossimo. Nonostante reiterati tentativi di pilotare e ripetere il voto, il partito di Erdogan ha infatti subìto dure sconfitte elettorali nelle principali città, Istanbul e Ankara incluse.

Sulle questioni della sicurezza nazionale, e in particolare del radicamento oltre confine del “terrorismo del Pkk” Erdogan trova ampi consensi domestici, mettendo in difficoltà l’opposizione, costituita dall’alleanza fra il partito repubblicano del popolo (Chp) e i nazionalisti del buon partito (Iyi parti), la quale per avere chances di vittoria ha bisogno del voto della sinistra e dei curdi.

Fondato da Mustafa Kemal Atatürk, il Chp è guidato oggi da Kemal Kılıçdaroğlu, economista socialdemocratico e possibile candidato per la presidenza. A fine maggio Kılıçdaroğlu ha convocato i quadri del partito a Istanbul, per far partire da qui la sfida per le presidenziali. Il giorno dopo si è presentato a sorpresa alla porta della compagnia di sicurezza privata Sadat, considerata una sorta di forza pretoriana del partito edoganista (Ak), accusandola di attività che minacciano la sicurezza delle elezioni: «Possono fare nel paese quello che già fanno all’estero».

Una delle questioni aperte riguarda dunque il grado di involuzione autoritaria in corso: in sostanza, possiamo considerare la Turchia nelle mani di un autocrate, o siamo ormai in dittatura, come si evince nelle note allusioni sfuggite al premier Draghi? Certo la repressione abbattutasi sul movimento per salvare Gezi Park, l’incriminazione e il licenziamento degli accademici per la pace, l’accanimento giudiziario su imprenditori, giornalisti e amministratori, lo stesso ritirarsi della Turchia dalla Convenzione di Istanbul per prevenire e combattere la violenza contro le donne, misurano una distanza sempre maggiore rispetto agli standard delle liberal-democrazie.

Fra molte limitazioni e manipolazioni delle istituzioni, nel paese è possibile esprimere dissenso, anche se è oggettivamente difficile dire quanto la carica presidenziale sia oggi nei fatti contendibile.

Oltre all’assertività in politica estera, negli anni Erdogan ha mostrato di saper gestire il conflitto fra social-conservatorismo rappresentato dall’islamismo politico, e il secolarismo repubblicano dei kemalisti filo-europei, accusati di elitismo. La stessa origine nella minoranza alawita di Kılıçdaroğlu potrebbe prestare argomenti al verbo islamo-nazionalista promosso dalla coalizione di governo.

Molto più difficile, per l’erdoganesimo, giocare sul terreno della crisi del carovita e delle crescenti tensioni innescate dall’afflusso di rifugiati, inclusi una serie di episodi di violenza fra comunità di recente immigrazione. Abituato a rappresentarsi come voce profonda del paese, il potere dell’Ak fatica a mettere a fuoco e dunque a dare risposte coerenti alla crisi sociale.

Questa difficoltà ha risvolti anche oltre confine, dato il crescente malcontento della popolazione per il caro-servizi nelle zone di occupazione turche, servite dalle compagnie di Ankara, con pagamenti in lire. L’aver sparato sui manifestanti che inveivano contro i prezzi, uccidendone due, non mette l’occupazione turca al riparo.

Interlocutore ineludibile

Nel frattempo, pur gravata di 12 miliardi di debito, Turkish Airlines resta la compagnia aerea con maggior copertura di destinazioni al mondo. Coltivando l’ambizione a mostrarsi agli occhi di amici e nemici come interlocutore ineludibile e determinato a tutto, Erdogan persegue la blindatura del proprio corso autoritario. Sul piano domestico, punta a eclissare l’opposizione mostrandosi l’unico leader capace di reggere il grande gioco nel quale la sua stessa trama neo-imperiale continuamente coinvolge le sorti della nazione.

L’islamismo politico che anima l’erdoganismo riceve propulsione dal Qatar, stabilmente allineato sulle posizioni della Fratellanza Islamica. Qatar e Turchia sono, in effetti, paesi-chiave per l’occidente nella gestione del dossier afghano. Una vecchia foto in bianco e nero mostra il leader turco seduto ai piedi al “macellaio di Kabul”, Gulbuddin Hekmatyar.

A ben vedere, il nodo da sciogliere restano le definizioni e le prassi della “guerra al terrore”. A partire dalla questione palestinese, la Turchia di Erdogan si erge a paladina dei musulmani discriminati dai doppi standard occidentali, fra i quali include la riluttanza delle democrazie liberali a farsi dettare le proprie definizioni di terrorismo. La guerra in Siria mostra una Turchia capace di coesistere con formazioni jihadiste di diversa afferenza.

Per una coalizione che in Ucraina rivendica la difesa della democrazia contro il montare degli autoritarismi è difficile accettare con Ankara baratti su nozioni di democrazia, diritto e terrorismo. Ancora una volta si impone dunque la considerazione della “questione curda” – incluse le pratiche radicali di democrazia, autogoverno e affermazione femminile sperimentate dai curdi in alleanza con l’occidente nella resistenza contro Daesh.

Il voto curdo per l’opposizione turca, così come una riapertura di un processo di dialogo con i movimenti armati, sono passaggi controversi ed estremamente difficili – ma, alla lunga, più ineludibili che la sopravvivenza di un autocrate.

© Riproduzione riservata