Nel pacchetto di misure presentate lo scorso 18 maggio da Bruxelles per far fronte alla crisi energetica, figura anche la nuova Strategia internazionale per l’energia. Il documento che, nelle intenzioni originarie, avrebbe dovuto porre le basi della diplomazia esterna del Green deal, ha finito però per risentire dell’attuale situazione di allarme per la sicurezza energetica europea innescata dalla guerra tra Russia e Ucraina.

Ambizioni originarie e attuali

In linea con gli obiettivi del Green deal, l’ambizione originaria europea era quella di creare nuove partnership per accelerare la transizione energetica globale, attraverso azioni di promozione delle fonti di energia rinnovabile e la rinuncia a ulteriori investimenti in progetti di infrastrutture fossili nei paesi terzi. La roadmap tracciata lo scorso anno dall’Agenzia internazionale per l’Energia per raggiungere la neutralità climatica al 2050 prevede infatti lo stop a ogni nuovo investimento nel settore dei combustibili fossili e la necessità di investire massicciamente nello sviluppo delle energie rinnovabili.

A ciò, si aggiunge una dimensione di giustizia climatica: insieme agli Stati Uniti, l’Europa fa parte dei paesi industrializzati, responsabili fino agli anni Novanta della maggior parte delle emissioni di gas serra a livello globale. A partire da quegli anni sono i paesi asiatici a far registrare i più alti tassi di emissione, in parallelo al processo di industrializzazione.

I paesi del Mediterraneo e l’Africa sono invece responsabili per una quota irrisoria di emissioni, che corrisponde a un basso livello di sviluppo economico. Affinché queste regioni possano sviluppare appieno le proprie economie senza incidere negativamente sugli obiettivi climatici, esse necessitano del supporto dei paesi industrializzati. Inoltre, queste regioni sono le più esposte agli impatti del cambiamento climatico, pur avendo contribuito in misura minore a causarlo.

La drammaticità dell’attuale momento storico sembra però aver fortemente ridimensionato l’ambizione europea. Sebbene nella Strategia si affermi che l’Ue mira a introdurre in futuro delle partnership per la transizione energetica, l’obiettivo che guida l’intero documento è quello di garantire la sicurezza energetica europea nell’immediato attraverso un aumento delle importazioni di gas da fornitori alternativi alla Russia. Oltre agli Stati Uniti, i paesi target sono quelli del Mediterraneo e dell’Africa.

I rischi per la transizione

Nella Strategia si fa esplicito riferimento a una partnership sul gnl con Israele ed Egitto, a una cooperazione rinnovata con l’Algeria, e alla necessità di esplorare il potenziale di paesi dell’Africa subsahariana quali tra gli altri Nigeria, Senegal e Angola. In tutti questi paesi, l’obiettivo di aumentare la produzione di gas e ampliare le infrastrutture per l’esportazione rischia di rallentare la transizione energetica e la diversificazione dei sistemi economici.

I paesi del Mediterraneo, così come quelli dell’Africa subsahariana, hanno delineato target di riduzione delle emissioni così come richiesto dall’Accordo di Parigi, condizionandone buona parte al sostegno finanziario internazionale. L’Europa, tanto attraverso la finanza pubblica quanto attraverso investimenti privati, ha dunque un ruolo chiave nell’indirizzare questi investimenti.

Replicando in un certo senso quanto accaduto in seguito all’inclusione, da parte della commissione europea, di gas e nucleare nella tassonomia degli investimenti sostenibili, il rischio è che venga meno quella “spinta gentile” a favore degli investimenti nella transizione. Ma non solo. Il piano REPowerEU, di cui la Strategia internazionale per l’energia è complemento, apre all’utilizzo di fondi europei della facility Connecting Europe e di fondi aggiuntivi dei Recovery plan nazionali per realizzare nuovi investimenti, lasciando discrezionalità agli stati circa il settore in cui questi vengono indirizzati, a patto che ciò non vada contro gli obiettivi di decarbonizzazione.

Nel caso delle infrastrutture fossili come i gasdotti, il lasciapassare è offerto dal fatto che, secondo la commissione, questi trasporteranno un giorno idrogeno, e dunque daranno un contributo essenziale alla decarbonizzazione. A fronte però di perduranti difficoltà tecniche nel garantire che effettivamente l’idrogeno possa essere trasportato nei metanodotti su lunghe distanze, e dubbi circa il fatto che questo possa mai avvenire, si rischia di dare oggi il via a progetti che incentivano un aumento delle attività di esplorazione e produzione del gas, e che lasciano in eredità infrastrutture dai lunghi tempi di ammortamento, che tengono dunque legati tanto esportatori quanto importatori all’utilizzo del gas anche oltre i limiti imposti dalla decarbonizzazione.

Accesso all’energia

In Africa, questo problema non solo non risolve ma addirittura aggrava quello dell’accesso all’energia. Anche paesi come Nigeria, Mozambico, Angola, che sono esportatori di gas e petrolio, non riescono a garantire l’accesso all’elettricità alla totalità della loro popolazione, né a dare modo a industrie diverse da quella degli idrocarburi di svilupparsi. Del gas estratto in Africa, infatti, solo una parte va a coprire la domanda locale. Il più viene commercializzato e venduto sui mercati europeo e asiatico.

Questo fatto, secondo diverse voci della società civile africana, espone le ipocrisie tanto dei governi africani quanto di quelli europei quando giustificano i nuovi investimenti nel gas africano in quanto “combustibile di transizione”. Questi investimenti, secondo le voci più critiche, priverebbero il continente africano delle risorse per finanziare la propria transizione e continuerebbero anzi a sostenere il modello di sviluppo occidentale caratterizzato da un elevato livello di emissioni mentre il continente africano rimane alle prese con le difficoltà dell’accesso all’energia, perpetuando quindi l’attuale situazione di ingiustizia energetica e climatica.

Patti sociali e instabilità

Nei paesi del Mediterraneo, compreso il nord Africa, non si registrano i problemi di accesso all’energia che esistono per il continente africano. Tuttavia, la dipendenza dai combustibili fossili e il ritardo nella transizione crea un altro tipo di problema. In paesi come l’Algeria, la rendita da oil&gas è alla base del patto sociale tra cittadini e governanti. Gli attuali prezzi elevati del gas garantiscono entrate ingenti allo stato, che può quindi effettuare redistribuzioni che garantiscono la pace sociale, così come già successo nel periodo delle primavere arabe che non a caso hanno risparmiato Algeri.

Tale sistema, tuttavia, è stabile solamente in apparenza. La pace sociale è infatti subordinata agli andamenti di un mercato estremamente volatile: in caso di basse entrate dall’oil&gas, come fino a pochi mesi fa, il sistema entra in crisi. Considerando che la domanda europea di gas dovrà diminuire sensibilmente fino ad azzerarsi nei prossimi trent’anni, è necessario agire fin da oggi per sostenere lo stato algerino nello sforzo di diversificazione della propria economia, pena un elevato rischio di instabilità futura.

Ma la corsa alla diversificazione da parte dell’Europa, e in particolar modo la fame di gnl, sta causando effetti negativi anche lontano dai suoi confini, nei paesi in via di sviluppo asiatici come ad esempio Pakistan o Sri Lanka. Questi paesi, già alle prese con la crisi del debito e l’impennata nei prezzi delle materie prime, si vedono sottrarre oggi quote di gnl precedentemente acquistate con contratti a lungo termine (dunque a prezzi bassi), che vengono dirottate verso l’Europa. Per alimentare le proprie economie, sono dunque costretti ad acquistare gnl sul mercato spot, agli elevatissimi prezzi attuali. Sul piano geopolitico, ciò rischia di spingere ulteriormente questi paesi nell’orbita della Russia, con la quale Islamabad sta siglando nuovi accordi per la fornitura di gas.

Mentre è impegnata a spegnere le fiamme della crisi attuale, l’Europa rischia dunque di non vedere l’incendio più grande che si prepara per il futuro.

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