La foto ritrae una furiosa rissa fra i tavoli di un ristorante: in quattro si azzuffano, mentre in un angolo un avventore continua a pasteggiare imperturbabile, un occhio alla bistecca e uno al cellulare. Qualcuno ha trasformato l’immagine in un meme, assegnando all’uomo impassibile la didascalia policy-maker, mentre i quattro facinorosi sono battezzati «accademici che litigano sulle teorie delle relazioni internazionali».

L’analista franco-americano Michael Shurkin – un passato fra Cia e Rand corporation – non ha perso occasione per commentare lapidario sui social: «Non ho mai pensato che la teoria delle relazioni internazionali servisse ad altro che per dibattiti a tarda notte nei dormitori dei college».

Le teorie che provano a gettare senso e spiegare la politica oltre i confini statali navigano dunque in un mare di irrilevanza? La satira coglie nel segno di un pregiudizio diffuso: da una parte la teoria – l’impervio e nebuloso mondo delle idee – e dall’altra, impermeabile alle idee, la realtà, ovvero i fatti. Gli accademici si sfidano a tenzone senza che il motivo e il beneficio dello scontro siano chiari al decisore politico, che con compassata sprezzatura tiene sguardo altrove.

Finita (si fa per dire) la pandemia, per il conflitto con la Russia scatta un po’ il liberi tutti: niente più scienziati, quantomeno scienziati della politica. Si può attingere a forme di sapere mutuate da chi ha esperienza di quel segmento di vita associata particolarmente patologico e segnato dalla ricorsività della guerra che sono le relazioni internazionali. Discorso chiuso, dunque?

Nemmeno per sogno.

Ricerca di schemi

Quando postuliamo che la realtà (supponiamo: la guerra in Ucraina) non interroghi la teoria – e che la teoria, a sua volta, non interroghi profondamente la realtà, nella fisica contemporanea come nelle scienze sociali –, stiamo incatenandoci a un assunto magnificamente teorico, se non meta-teorico. Lo stesso vale quando affermiamo che la politica internazionale, diversamente da quanto accade nell’arena domestica, è condannata a ripetersi senza evoluzione: un mondo tragico segnato dall’inevitabilità della guerra e dell’impunità, dove – come scriveva Tucidide – il forte (la grande potenza) fa ciò che vuole, e il debole (il piccolo stato) soffre quello che deve. Stiamo insomma scivolando verso le teorie realiste, spesso criticate per la propria inveterata tendenza a naturalizzare l’esistente, con significativi problemi nello spiegare il cambiamento e implicazioni nel generare profezie che si auto-avverano. 

Mi è capitato spesso, in questi mesi, di essere chiamato a parlare della guerra in Ucraina presso scuole, associazioni e sindacati. I miei stessi colleghi, nei giorni successivi all’invasione russa, mi hanno chiesto un aiuto alla comprensione, in forma di aggiornamenti analitici e interpretazioni. In quelle settimane penso di aver avuto modo di toccare con mano come un po’ ovunque si respirasse lo stesso disorientamento per “il ritorno della guerra in Europa”. Ho osservato difficoltà a unire i puntini fra gli studenti universitari di oggi, che non hanno visto le guerre nei Balcani e non hanno nemmeno memoria diretta del 9/11, ma che sono cresciuti a suon di domande televisive come “cosa c’è nella mente del jihadista?”.

A frastornare non era l’assenza di fatti, dati, eventi, cronache, ma – al contrario – la difficoltà a dotarsi di uno schema di comprensione, o meglio a capire dove rivolgersi e cosa leggere, dato il forte rumore di fondo, per chiarire a sé stessi come si spiega cosa, e il verso in cui stiamo andando.

Persino quegli studenti a cui solitamente si legge scritto negli occhi “troppa teoria, vogliamo più cose pratiche”, si ponevano improvvisamente domande riflessive. Perché sarà anche vero che “i fatti trascinano”: ma cosa possiamo registrare come fatto, di situazione in situazione, in un mondo incessantemente percorso da segnali ed eventi, è tutt’altro che auto-evidente.

A volerla dire tutta, i giorni che hanno preceduto l’inizio della guerra hanno visto imperversare ogni tipo di teoria. Sui social media ci si sfidava di chi sapeva leggere meglio il precipitare della crisi. Poi però la guerra è iniziata davvero, sono arrivati i morti, e nello sbigottimento generale quasi è calato il silenzio.

A pochi giorni dallo scoppio Michael MacFaul scriveva su Twitter che, arrivati a quel punto, si doveva smettere di considerare la crisi come test per diverse teorie astratte, e ripartire invece dal riconoscere l’esistenza di torto e ragione.

Teorie realiste

Sul fronte opposto, animato della spocchia di chi senza un filo di ironia ama ritrarsi vestito da Nicolò Machiavelli, c’era John Mearsheimer – punto di riferimento del realismo “di rito offensivo”: i più duri e puri, quelli che sostengono che nel sistema internazionale nessuno stato avrà mai abbastanza potere per sentirsi garantito, e dunque sarà incline a espandersi. Mearsheimer rivendicava di aver previsto un po’ tutto, e si sovrapponeva a Stephen Walt, sempre in casa realista, nel rintracciare le cause della crisi nell’arroganza americana. Non ci sarebbe stata nessuna crisi Russia-Ucraina, scriveva Walt su Foreign Affairs, se europei e americani non avessero peccato di hubris, wishful thinking, e di idealismo liberale.

Nel 2003 Mearsheimer e Walt avevano condannato senza mezzi termini l’invasione americana dell’Iraq: oggi sostengono che l’invasione russa dell’Ucraina sia la risposta logica e prevedibile all’espansionismo occidentale, che rifiuta l’idea che l’Ucraina debba fare i conti con le volontà del Cremlino nel proprio vicinato. In parecchi a sinistra hanno sottoscritto questa visione delle cose, probabilmente animati dal desiderio di rifiutare le letture più smaccatamente atlantiste, di condannare gli Stati Uniti e distanziarsi da quelle semplificazioni propagandistiche che riducono il problema dell’ordine mondiale alla malvagità di Putin. Il più delle volte lo hanno fatto non in modo diretto, ma piuttosto prediligendo le lenti analitiche offerte da una forma distinta di pensiero realista attorno alla conduzione delle relazioni internazionali: la geopolitica.

Poco preoccupata della propria validazione teorica, quest’ultima lascia parecchie  questioni senza risposta – come ho provato a evidenziare nel numero di Scenari del 1 maggio scorso. Si tratta non solo di questioni ontologiche (ad esempio, la natura socialmente costruita dello spazio nei diversi ambiti di conoscenza scientifica, ben evidenziata nel lavoro di Doreen Massey), ma anche dell’idea che tale “dato” influenzi il corso d’azione e il suo esito, senza riuscire a chiarire in che grado questo avvenga, in quale misura determini, fino a coniare vere e proprie dottrine fondate sull’idea di “destino geopolitico”.

Si può forse sostenere che il pensiero geopolitico rappresenti un modo di dare chiavi di lettura per la politica estera, là dove le teorie realiste à la Mearsheimer si fermano a spiegare il contesto strutturale in cui le decisioni vengono prese, senza aiutarci molto a illuminarne la sostanza. In generale, sul versante positivista-realista si registra relativamente poca considerazione del valore performativo dei discorsi e delle ideologie.

Dal momento che lo spazio non è mai esperito in modo diretto, ma sempre attraverso categorie culturali e specifiche rappresentazioni (mappe che codificano, enfatizzano o minimizzano dati ai quali si è scelto di dare rilievo), questa scarsa considerazione include il modo stesso in cui il pensiero geopolitico nelle sue varianti produce la realtà che pretende di spiegare. 

Come ha scritto Paul O’Shea, è abbastanza prevedibile che nazionalisti, conservatori e fascisti abbraccino la rappresentazione del mondo tipica del realismo come teatro di infinita competizione nazionalista. Più complesso è capire come talvolta a sinistra si sottoscriva una teoria che neghi la possibilità di progresso umano e ha come termine ultimo di riferimento non l’internazionalismo ma la nazione. Ancora più difficile è capire come l’indulgenza verso la logica di potenza possa non generare fondamentali contraddizioni, a sinistra, quando si tratta, invece che di quello russo, del vicinato statunitense o turco.

In sostanza: quando la Russia invade e commette crimini di guerra, saremmo davanti a come il mondo funziona, con tanto di professione di realismo (sigillo social-scientifico). Quando però gli Stati Uniti rovesciano governi ostili e instaurano regimi fantoccio, è per malvagità e interesse, e va combattuto.

Tra realismo e atlantismo

L’argomento realista di Mearsheimer è peraltro minato da contraddizioni. Fra le altre, è del tutto nelle premesse della visione realista che una Russia in lenta fase di ripresa nel tentare di ristabilire il proprio status di potenza cerchi, in modo indipendente dalle azioni americane, di asserire un ruolo di egemone nel suo vicinato. Alla luce di ciò non è dunque chiaro il ruolo che avrebbero avuto le chimere liberali nel causare la crisi ucraina. I realisti si sono opposti alle invasioni americane del passato, insistendo come si sia trattato di decisioni prive di una ragione cogente radicata nella sicurezza nazionale, ovvero distorte da lenti ideologiche (si pensi all’insistenza dei neocon su regime change). Ma quando si tratta di applicare il medesimo metro per spiegare le scelte della Russia, come possono spiegare un’invasione del genere in termini di stretta difesa della sicurezza nazionale, senza ideologia?

Nonostante i suoi fragorosi fallimenti predittivi (la fine della Guerra fredda) facciano ormai parte del canone dello studio delle relazioni internazionali – al pari del fallimento dell’interdipendenza economica nell’impedire la Prima guerra mondiale o dell’idealismo nell’impedire la Seconda – il realismo viene dunque accolto, o recepito sotto forma del suo succedaneo teoricamente proteiforme, la geopolitica, come strumento per navigare la realtà della guerra di oggi, tenendosi lontano da incrostazioni propagandistiche o – Dio ce ne scampi – intellettualismo elitista.  

Non potremmo, qui, trovarci più lontani da uno schema di lettura ispirato alle teorie liberali o liberal-istituzionali. Il fatto è che nello schema realista di Measheimer e Walt la possibilità di agire è di fatto negata a chiunque che non siano gli Stati Uniti, in quanto lo stato più potente. Tutti gli altri, Putin per primo, finiscono per essere stilizzati come attori che si adattano, mentre gli Usa sono l’attore che sbaglia.

Gli atlantisti, in massima parte di ispirazione liberale, sostengono al contrario che tutto sprigioni da una scelta criminale di Putin preparata per anni. Sottolineano come le democrazie, chiamate a dar prova di sé, abbiano saputo mostrarsi unite nell’adozione di sanzioni contro Mosca, allineandosi sulle due sponde dell’Atlantico, e lo abbiano fatto contro il persistere di vistose asimmetrie di interesse, a partire dalla dipendenza da idrocarburi. La rapidità della risposta dell’Unione europea, la disponibilità tedesca a rivedere la propria posizione sul Nordstream2 e riconsiderare la propria cultura strategica (spesa per la difesa), sono elementi che rafforzano l’idea che le istituzioni internazionali contino, e anzi possano fare la differenza.

Pur con una serie di altri significativi apporti, si può sostenere che queste due prospettive teoriche innervino le due principali narrazioni che in questa fase attraversano lo spazio del dibattito pubblico sulla guerra: il cosiddetto campo della pace (coloro che ritengono che ci si debba adoperare per aprire un tavolo negoziale in cui gli ucraini, sui quali l’occidente ha possibilità di intervenire, siano pronti a trattare, prima che recessione e crisi alimentare colpiscano in profondità), e il cosiddetto campo della giustizia, (coloro che ritengono occorra punire la Russia sconfiggendola, e che solo nel perseguimento della giustizia, e nel rifiuto dell’appeasement, si possa dischiudere una prospettiva di pace). Entrambi i campi rivendicano per la propria narrazione l’attributo di “realistica”, alla luce di lezioni apprese nel passato e nel presente: questo avviene, evidentemente, alla luce di diverse definizioni e assunti attorno ai fatti che costituiscono il conflitto in corso.

Segnali premonitori 

A questo punto riavvolgiamo il nastro, per capire che non stiamo parlando di un evento marginale e imprevisto. La verità è che la possibilità di un’escalation Russia-Ucraina è stata a lungo considerata dai politologi, a partire dal fatto che una guerra di intensità tutt’altro che bassa, per quanto sporadica, era di fatto in corso dal 2014.

Dopo l’annessione della Crimea, su proposta dell’amministrazione Obama, la Russia è stata cacciata dal G8. Sul versante liberal-interventista, Anne-Marie Slaughter, recentemente insignita della laurea honoris causa dell’Università di Trento, sosteneva nel 2014 che la Russia andasse fermata con le bombe in Siria, oltre che la società civile ucraina. Le complesse vicende domestiche ucraine, per parte loro, sono al cuore del primo tentativo di impeachment di Donald Trump negli Stati Uniti. Più volte, negli ultimi anni, si è parlato della necessità di arrivare a un accordo più solido di quelli di Minsk, così da mettere al riparo dalla possibilità di un’escalation che avrebbe coinvolto Russia e paesi occidentali.

Del resto, già nel 1994 Eugene Rumer, oggi direttore del programma Russia ed Eurasia di Carnegie, scriveva su Foreign policy che le pulsioni di disintegrazione e la perdita di sovranità dell’Ucraina sono una delle questioni critiche che riguardano gli Usa e i suoi alleati. Lo stesso Ian Bremmer, oggi titolato commentatore sulla stampa americana, scriveva che il destino della minoranza russa in Ucraina ha significativa importanza per la pace e la sicurezza internazionale. E proprio John Mearsheimer aveva scritto nel 1993 su Foreign affairs che occorreva dotare l’Ucraina di un deterrente nucleare, invece che assecondarne lo smantellamento.

In parecchi, dunque, ritenevano che il confine russo-ucraino potesse diventare il centro di un conflitto di vaste proporzioni. Ma nessuno di loro, in quel momento, considerava l’espansione della Nato (il processo che l’Alleanza ha definito “allargamento” per evitare la connotazione espansionista). Tale processo prenderà corpo nei fatti con la candidatura nel 1997 dei primi paesi ex socialisti, poi diventati membri nel 1999.

Del resto, non mancano studiosi di relazioni internazionali che hanno anticipato gli scenari odierni. Il 56 per cento dei 362 studiosi coinvolti in un expert survey condotto da Foreign policy fra dicembre e gennaio scorsi, consideravano “probabile” l’invasione russa.

Se il tema è sempre stato presente, cos’è mancato, allora? Perché il disorientamento collettivo osservato in Italia allo scoppio della guerra, accademici inclusi? Perché, dopo due anni di insistenza sul ruolo della scienza nell’affrontare pubblicamente la pandemia, davanti alla guerra i media non hanno cercato di interpellare la “miglior scienza disponibile”?

Problema italiano

Abbiamo assistito alla corsa a dotarsi di uno schema analitico il più rapidamente disponibile, ricorrendo agli esperti improvvisati del momento. Accumulo di spunti empirici, come se dall’accumulo potesse arrivare una spiegazione complessiva, una bussola sulla posizione da prendere. Stimoli di attenzione mediatica morbosa, studi televisivi riempiti di mappe: la guerra riprodotta con sagome di carrarmatini, come a cercare indizi in un fatto di cronaca. Poi il reiterarsi ad nauseam del “caso Orsini” (sociologo, non politologo internazionalista), e ancora le abborracciate accuse di putinismo e antiputinismo.

Si potrebbe sostenere che il problema sta tutto nella difficoltà con cui in Italia si parla di relazioni internazionali. Il tema, in effetti, è stato oggetto di dibattito anche in seno allo Standing group di relazioni internazionali (Sgri) della Società italiana di scienza politica, dove ci si è chiesti anche perché e con quali implicazioni sia diventato invalso l’impiego di “geopolitica” al posto di “politica internazionale”. Un certo diffuso anti-intellettualismo – storicamente associabile a correnti di pensiero autoritarie – tende in effetti a imporsi, soprattutto in tempi di guerra, e induce a snobbare come irrilevanti una serie di problemi teorici (buoni per i dibattiti a tarda notte fra collegiali, pena lo scivolare dell’auditel di un paio di punti).

Il problema è che la teoria non è eludibile, si trova proprio in mezzo al racconto: a monte c’è il problema di come si seleziona un fatto attribuendogli importanza, costruendo una cornice esplicativa degli eventi parsimoniosa, in cui poche cose sono esposte per aiutarci a capirne molte. Importante per cosa, rispetto a cosa? Eccoci già dentro una teoria implicita.

Seguono poi il tema degli standard di prova, i risvolti epistemologici, le questioni metodologiche e quelle etiche. Allontanandoci da visioni scientiste incontreremo considerazioni circa la partecipazione della teoria alla costruzione del mondo, e dunque la sua vocazione più o meno pro-status quo o, al contrario, la sua disposizione verso l’ingaggio critico delle configurazioni di potere esistenti.

In questo quadro è sicuramente singolare che gli sforzi del ministero degli Esteri di dar vita a una foreign policy community finora tendano a strutturarsi intorno a dialoghi con la “scuola geopolitica”, con scarso coinvolgimento di chi insegna relazioni internazionali, e soprattutto analisi delle politiche estere.

L’importanza della teoria

C’è però una responsabilità alla quale chi insegna relazioni internazionali non sfugge, e riguarda la capacità di mostrare l’importanza della teoria tanto nella comprensione della natura dei problemi quanto nello strutturarsi delle opzioni politiche possibili. Personalmente ho fatto la scelta di stare lontano dal tipo di contenitore televisivo al momento dominante (i cosiddetti “talk”, che mi pare abbiano contribuito a molte cose, ma non ad aiutare a capire la politica internazionale). Tuttavia non credo si tratti solo di difficoltà a far passare un’argomentazione teoricamente fondata dentro un format televisivo.

Nel suo recente intervento all’assemblea annuale dello Sgri, tenutasi all’Università per stranieri di Perugia, Angelo Panebianco ha ricordato come ci sia stata un’èra positivista in cui si riteneva che la teoria delle relazioni internazionali fosse destinata a procedere lungo un binario analogo a quanto avviene in altre branche della scienza, dove quelle che oggi appaiono nuove frontiere sono destinate all’obsolescenza, e inevitabilmente mano a mano che la scienza avanza si dimenticano i nomi dei capostipite e degli scienziati.

Ci troviamo, invece, in uno spazio in cui la riflessione sui classici del pensiero politico – assieme a categorie come virtù, fortuna e profeti disarmati – restano un ancoraggio importante per comprendere i dilemmi della politica internazionale odierna.  

Quattro sono i traumi che, contando dall’inizio del millennio, dinamitano l’ordine internazionale liberale: l’attacco alla Torri gemelle, il crollo di Lehman Brother, la pandemia di coronavirus, e – dopo otto anni di conflitto armato limitato al Donbass – la guerra russo-ucraina.

A pochi mesi dal primo di questi eventi, il 27 febbraio 2003 il presidente della International studies association, Steve Smith, apriva la convention a Portland con un intervento memorabile. Ispirato a un modo di dire maori, sin dal titolo – Singing our world into existence: International Relations Theory and September 11 – annunciava una radicale riconsiderazione, sotto il profilo della responsabilità etica, degli assunti positivisti tradizionalmente imperanti. Assunti che inducono ad assolvere la teoria rispetto al prodursi di quelle dinamiche di realtà che generano la catastrofe del 9/11, e relegano i teorici agli avventori del bar che si azzuffano nel meme succitato.

Smith parte da Max Weber per contestare la separazione fra fatti e valori, e parla esplicitamente di complicità della teoria nell’aver costruito categorie analitiche che, usando il linguaggio della neutralità scientifica, riflettono in realtà gli interessi dei dominanti. Lungi dall’essere speculazione sulla realtà – sostiene Smith – la teoria ne è parte costitutiva: se un trauma arriva inatteso a destabilizzare la nostra capacità di comprendere, disorientandoci, è solo perché, intenti a rifletterci con autoindulgenza, ci siamo dotati di teorie piene di angoli ciechi.

Argomenti di tal genere non erano disponibili durante la Guerra fredda, se non agli estremi margini. Furono proprio le modalità con cui si produsse la fine del bipolarismo, e l’entusiasmo popolare per le rivoluzioni di velluto, ad aprire un capitolo completamente nuovo nel dibattito teorico, scardinando un’intera apparecchiatura legata agli studi strategici e alla deterrenza. Qualcosa aveva mosso in profondità il convincimento politico nel mondo del socialismo reale: non si trattava solo di uno spostamento di potere risultante da uno scostamento nelle modalità di operare di vincoli all’azione. Si assisteva a una trasformazione degli attori e delle regole del gioco, a nuove possibilità che venivano percorse abbracciando il new thinking. Un’intera impalcatura di legittimità crollava per mano di nuovi protagonisti.

Il ruolo delle idee

Giovanni Arrighi sostiene di fatto che la Guerra fredda fu vinta da chi seppe produrre benessere per la gran parte della sua popolazione, mentre il socialismo reale, nonostante le premesse di sovvertimento dell’ordine sociale, era finito a fare solo da garante del benessere dei governanti rispetto alle aspettative dei loro cittadini. Gran parte di quello sconvolgimento, tuttavia, ebbe a che fare con la diffusione di idee.

Sul versante liberale, James Rosenau metteva a fuoco, attraverso la turbolenza di sistema, la dimensione transnazionale del cambiamento, ovvero gli scambi fra società non inquadrate dalla logica dell’autorità statale: a smantellare l’equilibrio del terrore aveva fatto di più la diffusione della tecnologia vhs, vettore della diffusione di nuove immagini e aspettative, che non la corsa agli armamenti.

I teorici di marca social-costruttivista avrebbero dato ulteriore enfasi sul ruolo di idee, valori, norme – e degli uomini che se ne fecero storicamente interpreti – mettendo a fuoco l’emergere di nuove convenzioni inter-soggettive, nuove convinzioni circa cosa risulti socialmente appropriato (non solo utile, né tantomeno concesso), quale struttura di significato che abilita le trasformazioni, contro ogni determinismo materialista. La condizione di anarchia del sistema internazionale, l’assenza di un governo internazionale, concludeva Alexander Wendt, non è un vincolo immutabile, ma nient’altro che ciò che gli stati ne fanno. 

Più radicali, gli accademici ispirati dalla critica post-positivista erodevano i pilastri del pensiero geopolitico classico, le sue nozioni di minaccia e pericolo a lungo rappresentate come auto-evidenze capaci di strutturare un intero campo di opzioni politiche domestiche, in una visione del mondo costruita a misura delle grandi potenze e delle loro ideologie di progresso, dispiegate a coprire pratiche di dominio e abominio.

In Norvegia, Iver Neumann portava sul terreno post-strutturalista la genealogia che costruisce la “minaccia russa”, nemica della civiltà dall’archetipo dei popoli nomadi della steppa in avanti, fra invasioni e despotismo asiatico. In modo simile, in qualche modo indebitato rispetto all’orientalismo di Edward Said, Merje Kuus analizzava semanticamente il confine fra europeità (stabile, razionale, pacifica fino alla Mitteleuropa) e l’estità (eastness), qualità distintiva dell’essere non solo a est, ma anche come l’est: periferia arretrata, insicura di sé e vagamente minacciosa, con punte di spasmo e convulsione violenta sui confini.

Al contrario, l’enfasi dei (neo)realisti sulla razionalità del processo politico e sull’importanza di fattori sistemici e strutturali va a eclissare la dimensione ideologica domestica – ovvero come Putin abbia intessuto, nel tempo, una narrazione attorno al sé del mondo russo rispetto all’occidente, struttura di giustificazione di un’invasione che molti dall’esterno hanno dapprima ignorato (Putin come puro uomo di potere) e poi letto come “irrazionale” (un folle criminale).

Percezioni della realtà

Sullo specifico aspetto della razionalità delle decisioni nel corso delle crisi internazionali, esiste in effetti una letteratura sterminata (si pensi agli studi sulla crisi dei missili a Cuba), sostanzialmente incentrata sul problema delle percezioni della realtà, e di come esse possano essere distorte nei regimi autoritari dall’assenza di contro-poteri. Le prospettive teoriche positiviste, liberali o realiste che siano, introducono fattori intervenienti, quali la dimensione psicologica dei leader, o fenomeni di group-think che sviano i giudizi. 

Oltre la pietra d’angolo della razionalità del processo politico, varcato il limite del positivismo, si entra nel campo delle teorie che vedono le idee e il linguaggio come costitutive della realtà. Da questo punto di vista, il nazionalismo, che si parli del Cremlino come che degli ucraini che resistono, a livello diffuso così come fra le élite, è a un tempo il prodotto e la matrice di una determinata genealogia di significati e repertori d’azione, profondamente intrecciata con diversi tipi di violenza, legata non da ultimo a strutture patriarcali, all’emergere di modelli di mascolinità militarista e a processi di colonizzazione.

Lettura eurocentrica

Fra gli altri, Maria Mälksoo ha recentemente provato a portare la guerra ucraina fuori dai binari di una lettura eurocentrica delle relazioni internazionali, rintracciandone il “momento postcoloniale”, ponendo domande importanti sul perché il debole resista al forte, e circa le forme che tale resistenza prende.

Il riaffacciarsi delle politiche di potenza, così evidente nella nostalgia tardo-imperiale che anima la guerra voluta dal Cremlino, riporta in effetti al centro un mondo in cui “relazioni internazionali” sembra ancora tradursi con “Europa”, mentre il resto del mondo – il sud globale – è spesso rappresentato come categoria residua, pensata come “a ruota”, in cerca di definizione circa con chi schierarsi, in fondo priva di agency propria.

Questa rappresentazione è empiricamente problematica. In realtà, in un mondo con molte aspiranti potenze regionali che rivaleggiano lungo le periferie del pianeta mentre ambiscono a ritagliarsi sfere di influenza commerciale e militare, vale la pena di interrogarsi circa quale sia il ruolo degli imperi, o quantomeno dei retaggi e delle gerarchie imperiali (non solo quello russo, ma anche quello ottomano, britannico, cinese), nonché della resistenza ai medesimi. Quanto regge la narrazione delle democrazie unite, quando si introducono nell’immagine alleati come Turchia o Arabia Saudita? In un mondo conteso da ambizioni imperiali, quale spazio resta all’Unione europea, strano animale allevato su un’ipotesi di pace, nonché percorso da istinti post-sovrani?

Teorie della stabilità egemonica

Un’altra idea, fondamentalmente d’ispirazione realista ma aperta anche a contributi da altre discipline (economia, storia), chiama in ballo la famiglia di teorie della stabilità egemonica: secondo questa prospettiva, caduto il Muro di Berlino, gli Usa hanno perseguito una sfera di influenza globale, chiamata ordine liberale mondiale, segnato da istanze di governance globale. Ma questo ordine è progressivamente entrato in crisi su diversi fronti, e in questo processo la Russia sta semplicemente cercando di riasserire la propria sfera d’influenza. Il problema è che sia Usa sia Russia sono in declino rispetto alla potenza ascendente, la Cina, e altri paesi emergenti. Questo pone una serie di difficoltà teoriche inedite, a partire dalle teorie della deterrenza: tre sono oggi stati a disporre di missili ipersonici, ed è complicato pensare la deterrenza a tre. 

È dunque necessario ri-stabilire un equilibrio fra sfere di influenza, a questo si riduce l’ipotesi della pace oggi? Accettare questa premessa significa accettare quello che una grande potenza fa dentro la propria sfera di influenza, a partire dal fare e disfare regimi politici, vincolando o espiantando la democrazia. La storia contemporanea ha mostrato i limiti di questa concezione di pace (tutta negativa, direbbe Johan Galtung) mentre se c’è un ambito in cui la teoria delle relazioni internazionali si avvicina a identificare, offrendo diverse spiegazioni, una regolarità che ha quasi carattere di legge, è proprio nello studio della “pace separata” fra democrazie, ovvero il fatto che le democrazie non si fanno guerra fra loro. Come funzionerà in un mondo di democrazie sempre più armate (contro i regimi autoritari), assetate di risorse naturali ed energia nel pieno delle sfide della transizione ecologica?

La storia della disciplina “relazioni internazionali” è spesso raccontata attraverso la vicenda che nel 1919 portò, direttamente dai tavoli del Trattato di Versailles, alcuni pensatori liberali a fondare istituzioni di ricerca nel mondo anglosassone, con l’esplicito obiettivo di impedire che l’incubo di un conflitto mondiale si ripetesse. Si trattava, a tutti gli effetti, di un progetto intellettuale per la pace mondiale.

C’è voluto un secolo perché questa narrazione venisse messa in dubbio: in The Imperial Discipline Alexandre Davis, Vineet Thakur e Peter Vale mostrano oggi come al centro piuttosto esplicito della preoccupazione del tempo ci fosse non tanto la pace, quanto l’impero. Il predecessore della rivista Foreign affairs, sul quale si susseguono prese di posizione sulla guerra in Ucraina, si chiamava in effetti Journal of race development. Non esiste una singola storia della teoria delle relazioni internazionali, non esiste una singola teoria, ma non se ne può fare a meno. Mentre la guerra interroga la teoria, la teoria interroga questa guerra, ponendo domande che ci chiedono chi siamo e verso dove andiamo. 

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