L’Unione europea è al bivio. Può riformarsi in modo da prendere decisioni più rapide, incisive, e accelerare il processo di integrazione, come auspica Emmanuel Macron in compagnia dei paesi fondatori, tra i quali l’Italia. O può restare dov’è: inchiodata ai veti di Viktor Orbán, e perciò ricattabile. Il premier ungherese non ha neanche avuto bisogno di firmare il documento avanzato nel giorno della festa dell’Europa da 13 governi per stroncare ogni progetto di riforma dei trattati. Per aprire una convenzione, e quindi riscrivere le regole, servono 14 governi a favore. Per l’Ungheria restare sul crinale in questa fase è proficuo: le serve, assieme allo stop all’embargo energetico, per sbloccare i fondi Ue ancora in sospeso. La possibilità per Orbán, il sodale di Putin in Europa, di impantanare l’Ue e di sgretolarla dall’interno può essere eliminata solo in un modo: scardinando il metodo dell’unanimità. Ma per fare questo, così come per eleggere i futuri eurodeputati con liste transnazionali, serve, manco a dirlo, un consenso unanime dei governi. «Al parlamento europeo fino allo scorso mandato è stato impossibile far passare l’idea di una circoscrizione elettorale paneuropea, con l’indicazione chiara di uno Spitzenkandidat, cioè di un candidato alla presidenza della Commissione. La scorsa settimana ci siamo riusciti – dice Domènec Ruiz Devesa, il socialista spagnolo che ha guidato il progetto – perché abbiamo trovato un equilibrio che tutelasse anche i paesi più piccoli, dunque anche maltesi e olandesi lo hanno sostenuto». Ma l’ok dell’aula non basta: «Serve l’unanimità in Consiglio». Ogni avanzamento dell’Ue è appeso a questo.

Il veto di Putin

L’ungherese Péter Szijjártó non è solo il ministro degli Esteri di uno stato membro dell’Unione europea. Per la Russia, è un ottimo «amico». C’è anche una medaglia a cinque punte che lo attesta: è la medaglia dell’«ordine dell’amicizia», la più alta onorificenza che la Russia assegna a uno straniero. Il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, l’ha consegnata personalmente, al Cremlino, nel dicembre 2021, a Szijjártó, il quale ha commentato così: «Che orgoglio, per me, mantenere un rapporto di cooperazione con Mosca, basato sugli interessi reciproci e la reciproca fiducia, a dispetto delle scoraggianti tendenze globali e regionali». Probabilmente la «scoraggiante tendenza» erano i venti di guerra, certo è che Szijjártó parlava di «reciproca fiducia» e pure era perfettamente al corrente che nella seconda metà del 2021 gli hacker vicini al Cremlino avevano completamente compromesso i sistemi informatici del suo ministero, e cioè il ministero degli Esteri e del Commercio ungherese. Il materiale riservato, gli scambi: tutto questo è stato “bucato” da Mosca, che ha avuto così una porta spalancata sull’Ue. Un mese prima dell’invasione dell’Ucraina, gli attacchi informatici erano ancora in corso; e Szijjártó ne era al corrente ormai da tempo. Ha comunque indossato «con orgoglio» la medaglia dell’amicizia russa. Un’amicizia che non è certo esclusiva: lunedì 9 maggio, giorno della festa dell’Europa, Szijjártó era a festeggiare il sodalizio con la Cina. Dopo pranzo, si è fatto fotografare al tavolo delle trattative, e poi su Facebook, sempre «con orgoglio», ha scritto: «L’anno scorso c’è stato l’accordo con la cinese Chervon Auto per aprire a Miskolc la sua prima manifattura fuori dalla Cina. È una vera pietra miliare nella storia dell’industria automobilistica elettrica in Ungheria. È andata così bene che possiamo già negoziare un altro investimento: il nuovo stabilimento sarà immediatamente ampliato». Sull’industria automobilistica si è retto per anni il sodalizio con la Germania, e tuttora – come conferma Tamas Matura, esperto dei rapporti sino-ungheresi dell’università Corvinus di Budapest – il governo ungherese favorisce gli imprenditori tedeschi. L’interdipendenza asimmetrica tra Germania e Ungheria è stata a lungo il fondamento della «politica del compromesso» perseguita da Angela Merkel nei confronti di Viktor Orbán. «In economia, la Germania resta preponderante rispetto alla Cina – spiega Matura – ma sul piano politico il premier ungherese fa sempre più affidamento sul legame coi regimi illiberali». In questo contesto, quando l’Ue deve decidere in materia di politica estera e di sicurezza comune, di finanze Ue, o su altri ambiti ritenuti «sensibili» per gli stati, il voto dell’Ungheria, da solo, basta a fermare tutti. Nell’interesse di chi?

Il fronte anti integrazione

Il 9 maggio si è conclusa la conferenza sul futuro dell’Europa. A Strasburgo, Emmanuel Macron ha dichiarato il suo sostegno alla richiesta dell’Europarlamento di avviare una convenzione. Serve a riformare i trattati, e questo è un passaggio inevitabile se si vuol decidere a maggioranza qualificata ciò che oggi viene deciso solo se c’è unanimità. Per approvare la riforma dei trattati, serve però l’unanimità; ed è difficile che chi oggi beneficia del potere di veto dia il suo consenso a rinunciarvi. Ma anche soltanto aprire i lavori della convenzione non sarà facile: bisogna che siano d’accordo 14 governi su 27, e cioè la maggioranza semplice. Macron, che ha la presidenza di turno del Consiglio Ue, ha promesso di calendarizzare la discussione nel Consiglio di giugno. Ma la fragilità delle sue promesse è diventata evidente nel giro di poche ore. Nella stessa giornata, di festa per l’Europa, tredici paesi, e cioè Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Romania, Slovenia e Svezia, hanno tentato per iscritto di spegnere ogni zelo su una possibile riforma dei trattati. «Con questo non-paper (cioè un documento informale) vogliamo ricordare che il cambiamento dei trattati non è mai stato nelle finalità della conferenza sul futuro dell’Europa», scrivono i governi. Sarebbe «prematuro lanciare ora un processo simile, e ci distoglierebbe dall’affrontare le sfide geopolitiche, i temi sui quali i nostri cittadini aspettano risposte urgenti». Per questi governi «abbiamo già, un’Europa che funziona. Non bisogna strumentalizzare le idee della conferenza per servire interessi istituzionali particolari». Il fronte dei contrari all’integrazione raccoglie istanze diverse: c’è chi teme di diventare ininfluente se le regole cambiano, ci sono governi a guida nazionalista, come la Polonia, che contestano l’ordinamento europeo soprattutto quando li costringerebbe a rispettare lo stato di diritto, ci sono paesi di tradizione euroscettica e fuori dall’eurozona come la Danimarca. L’Ungheria non risulta nella lista, ma parlano i fatti: il 9 maggio Ursula von der Leyen è volata a Budapest sperando di disinnescare il veto ungherese sull’embargo di petrolio russo. Ma «non è bastato, dunque convocherò una videoconferenza con gli attori regionali», ha concluso. Questo martedì è entrato in campo Macron: lui e Orbán si sono sentiti al telefono. Non è la prima volta che il premier ungherese impone un veto, né è la prima volta che trascina con sé altri paesi: ai tempi dell’indebitamento comune per la pandemia, con la Polonia ha usato questo potere per bloccare il meccanismo che condiziona i fondi Ue allo stato di diritto; ha ottenuto, con Merkel, di rinviarne l’applicazione dopo le elezioni ungheresi dello scorso aprile. Stavolta, l’Ungheria ha coinvolto Repubblica Ceca e Slovacchia. Le principali raffinerie ungheresi e slovacche sono in mano a Mol, una multinazionale con sede a Budapest che opera con petrolio proveniente dalla Russia. Il 60 per cento del petrolio, in Ungheria, è russo, e la mancanza di sbocchi sul mare, dunque di accessi per le petroliere, è reinterpretata con linguaggio nazionalista dal premier, che torna indietro nella storia fino al 1920, quando con il trattato del Trianon «ci hanno preso il mare». Ma al di là degli argomenti, resta un obiettivo tacito, come sempre accade quando Orbán usa la tattica del veto; stavolta è ottenere da Bruxelles lo sblocco dei fondi del Recovery tuttora sospesi. Finché l’Ue non esce dalla dinamica del veto, resta ricattabile; e viceversa.

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