A un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, un viaggio in Russia consente di trovare conferme sulle analisi svolte nei mesi precedenti e può produrre nuove riflessioni per comprendere gli scenari futuri.

Spostandosi lungo la tratta Mosca-San Pietroburgo – fermandosi a Tver’ e Velikji Novgorod – e proseguendo verso Kronštadt, parte del golfo di Finlandia, non si ha l’impressione che il paese sia in guerra.

Sporadici sono i manifesti per le strade o nelle metropolitane delle grandi città – al contrario di quelli dei partiti o dei candidati quantitativamente più diffusi solitamente nelle campagne elettorali – e prevalentemente situati nelle vie di maggiore affluenza dei cittadini russi.

Immagini di carri armati, aerei e di soldati con la scritta “noi difendiamo la patria” si alternano ai giovani volti degli “eroi della Patria”, deceduti sul campo di battaglia.

Tuttavia, la vita scorre per il popolo russo, abituato a confrontarsi con i problemi quotidiani, e sembra non porre una particolare attenzione alle suggestioni della propaganda del Cremlino. Eppure, alcune differenze rispetto al periodo precedente al 24 febbraio 2022 non passano inosservate. Oggi si parla di “paesi amici” e “paesi nemici”, anche in riferimento ai prodotti alimentari che arrivano sul mercato russo.

I prodotti dei paesi amici costano meno rispetto a quelli dei paesi nemici, su cui ricade il prezzo maggiorato del trasporto e abbondano merci bielorusse e turche a buon mercato. È vero. I prezzi sono aumentati, ma non sono raddoppiati o triplicati nell’ultimo anno.

Si tratta, in realtà, di un incremento progressivo degli ultimi tre anni che i russi tendenzialmente imputano ancora agli effetti della pandemia e non alla cosiddetta “operazione militare speciale”.

Niente ribellione

E questo implica che, come avevamo sostenuto sin dall’inizio di questo conflitto, difficilmente i russi si ribelleranno contro il loro presidente nel breve e medio periodo per una mera questione economica.

Le sanzioni hanno colpito diversi settori industriali e finanziari e, certamente, peggiorato una situazione economica che era già in atto dal 2013-2014.

La governatrice della Banca centrale russa, Elvira Nabiullina, riconosce pubblicamente le difficoltà, afferma che il calo maggiore del Pil sarà registrato a metà del 2023, ma ritiene anche che la recessione economica in Russia sarà più lunga e meno profonda e vi sono motivi per essere ottimisti per il futuro se, contestualmente, verrà anche avviata una modernizzazione e non solo la nazionalizzazione del sistema economico russo.

Se la realtà quotidiana è, prevalentemente, contraddistinta da un atteggiamento di rassegnata passività dinanzi alla politica interna, il sistema dei mass media russi riporta inesorabilmente il cittadino nella dimensione di un paese in economia di guerra.

Quotidianamente i telegiornali aggiornano le notizie dalla Ucraina, enfatizzando i successi dell’esercito russo e minimizzando quelli ucraini, i vari talk show e i programmi di intrattenimento svolgono analisi sulle modalità comunicative di Volodymyr Zelensky e sulle varie strategie dell’amministrazione presidenziale americana.

La narrazione è sempre la medesima: quando si parla di “denazificazione” dell’Ucraina e difesa dei russofoni nel Donbass si utilizza il termine “operazione speciale militare”.

Ma quando si vuole sottolineare che è una guerra statunitense (e della Nato) per procura contro la Russia, non c’è alcuna esitazione, nemmeno da parte di Vladimir Putin, a parlare di guerra. Da un lato, il Cremlino ha intrapreso un’iniziativa militare, sinora portata avanti con errori strategici e tattici tali da mettere in dubbio, quando non si ironizza, la credibilità e capacità dell’esercito russo che mira, essenzialmente, a evitare di perdere l’Ucraina dalla propria sfera d’influenza.

Non solo. L’obiettivo, condiviso con la Cina, è la ridefinizione dell’ordine internazionale ad egemonia americana e la volontà di proporre un nuovo schema di sicurezza in Europa: ambizioni personali e di politica interna si intrecciano con la postura revisionista internazionale.

Necessità difensiva

La sfida all’occidente è proposta all’opinione pubblica russa come una necessità di difesa della patria.

Non si tratta, solamente, di evitare la disgregazione territoriale della Russia postcomunista (ovvero il crollo dell’Urss, «la catastrofe del XX secolo», come l’ha definita Putin), l’implosione di separatismi che avevano già minato negli anni Novanta la coesione della nuova Federazione russa.

In gioco c’è molto di più: è l’esistenza stessa dell’identità russa, della sua cultura, dei suoi valori che non possono essere fagocitati dall’occidente “traditore” e incapace di tutelare le tradizioni dei popoli.

Presentata in questi termini – patriottismo e identità culturale – diventa maggiormente comprensibile il grado di consenso che il presidente russo è riuscito a mantenere in questo anno di scontro militare in Ucraina.

Diversi sondaggi dell’istituto di ricerca Levada Center rilevano come dal 24 febbraio scorso questo valore sia passato da 71 a 82 punti percentuali, diffuso prevalentemente tra gli over 50 e tra coloro che accedono ai media televisivi.

Le mobilitazioni di protesta di massa sono state, invece, represse e, ormai, si limitano a mere azioni individuali con il rischio, dopo tre fermi amministrativi consecutivi, di rimanere in carcere per anni.

Questa breve disamina non deve, però, trarre in inganno. La storia di questo paese dimostra come i grandi cambiamenti epocali siano avvenuti, spesso, improvvisamente.

Qualche crepa nella verticale del potere è ormai evidente da qualche mese ed è accelerata anche dalle prossime elezioni presidenziali del marzo 2024.

La “successione”

Entro dicembre di quest’anno Putin dovrà decidere se ricandidarsi o condurre il popolo russo alla “scelta” di un suo successore. Questa situazione è già, di per sé, tale da creare fibrillazioni interne alle varie fazioni del Cremlino.

Se aggiungiamo anche gli scontri verbali fra il capo dei mercenari di Wagner, Evgenij Prigožin, e il ministro della difesa, Sergej Šojgu, vi è un quadro più chiaro della situazione che il presidente russo deve gestire.

Sinora il principio “divide et impera” ha sempre funzionato e Putin è consapevole che non può fare a meno dell’esercito e dei siloviki (agenti di sicurezza) per garantire la stabilità politica del paese.

Ma tutto è in continua evoluzione, complice anche l’effetto della presunta e attesa controffensiva russa dalla quale sembra dipendere la sorte del conflitto.

Sappiamo dalle sue dichiarazioni che il presidente Putin non accetterà alcun negoziato che non riconosca quanto sinora è già stato “occupato” (Crimea e territori del Donbass annessi con un referendum non riconosciuto nel diritto internazionale) dalla Russia, ma il capo del Cremlino ha anche riconosciuto che molto dipenderà dalle vittorie-sconfitte sul campo.

Anche dal punto di vista occidentale, la recente visita del presidente americano Joe Biden a Kiev ha rilanciato un segnale molto forte di coesione della “coalizione delle democrazie” al sostegno militare dell’esercito ucraino sino alla vittoria.

Al momento non si intravvedono margini di una descalation nei toni dei leader e militare in attesa che il «veleno delle sanzioni», come ha affermato l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e della sicurezza, Josep Borrell, faccia effetto. E, qui, risiede, forse, l’unica variabile su cui puntano, per diversi motivi, la Russia e l’occidente: il fattore temporale.

Da un lato, il Cremlino ritiene di poter superare economicamente la situazione ancora per qualche anno e attende che si verifichino alcuni eventi politici nel 2024: le elezioni presidenziali americane del 2024 (con la sconfitta di Biden) e le elezioni del parlamento europeo (cambi ai vertici delle istituzioni europee), unitamente ad una sempre più diffusa insoddisfazione delle opinioni pubbliche europee nei confronti del sostegno al presidente Zelensky.

Dall’altro lato, gli Usa, la Nato e l’Ue puntano ad una disfatta militare russa (obiettivo minimo) e l’avvio di una tregua sul piano militare (obiettivo massimo), senza perdere la speranza in un cambiamento di regime al Cremlino.

In questa partita a scacchi, la Cina, intanto, osserva prima di dare scacco matto.

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