L’invasione russa dell’Ucraina si sta dimostrando un vero disastro. Lontani gli obiettivi militari iniziali, tuttora da centrare quelli fissati di recente, assai dure le sanzioni approvate dall’occidente contro Mosca. Ancora più rilevante, difficilmente la Federazione potrà riprendersi dal danno d’immagine in cui è incappata.

Vera tragedia per un impero antico, dunque abituato a vivere anzitutto di status, del riconoscimento della sua potenza da parte degli altri, del timore incusso nei suoi interlocutori. Inevitabilmente tale sconclusionata campagna avrà un effetto molto negativo sulla capacità di Mosca di imporre la propria visione, di sconsigliare un’eventuale azione contro di sé. Ormai aggrappata soltanto all’idea di imprevedibilità che la riguarda, abbastanza per sopravvivere, non per scongiurare d’essere divorata da una Cina famelica.

Le fasi dell’invasione

Alla fine di febbraio Mosca ha sognato di prendere velocemente l’intera Ucraina. Stando agli improvvisati piani iniziali, l’armata russa avrebbe facilmente raggiunto Kiev, rovesciato il governo Zelensky, sostituito da un esecutivo filo-putiniano, pronto a modificare la costituzione per tradurre nero su bianco la neutralità del paese. Sicché alcune unità dell’esercito sono state spedite oltre la linea del nemico, nel tentativo di giungere alla capitale, trovandosi isolate, mancanti del rifornimento di carburante e alimentare. Per compiere tale avanzata, la Russia ha invaso il territorio da tre direttrici distinte, da nord, da sud e da est, sparpagliando sul territorio le proprie forze, mancando così di un focus sul quale concentrarsi, consegnandosi al fuoco nemico, agile e addestrato per lo scontro.

Naufragata questa prima fase, Mosca ha provato a cingere d’assedio le principali città d’Ucraina, nella speranza di fiaccare la resistenza e la popolazione, per conquistare i centri nevralgici, per tirare verso sé ampie fette della popolazione. Prima di scoprire che, con sommo stupore, pure russofoni gli abitanti non avevano alcuna intenzione di arrendersi, di fondersi con gli occupanti. Allora il Cremlino ha compreso di mancare degli effettivi di fanteria per conquistare una nazione di oltre 40 milioni di abitanti, ampiamente ostile a ovest del Dnepr.

Non è bastato pescare tra ceceni e turcofoni della Siberia, né tra i mercenari siriani, per supplire a tale mancanza. Le perdite inflitte da Kiev, fortemente sostenuta dagli armamenti occidentali, hanno lentamente convinto Putin che fosse giunto il momento di passare alla terza fase della guerra, benché annunciata come seconda. Ovvero concentrarsi sulla presa del Donbass, territorio già quasi totalmente nella disponibilità di Mosca, improvvisamente assurto a principale trofeo della campagna in corso.

È qui che la vicenda palesa il fallimento russo. In queste ore la Federazione sta trasferendo verso le regioni orientali dell’Ucraina mezzi e uomini presenti nel centro e nel nord, in vista di una battaglia definita “decisiva”. Tanto che nel frattempo il generale Aleksandr Dvornikov, già veterano di Siria, è stato designato nuovo comandante delle forze d’invasione. Aldilà della propaganda, scopo della campagna è acquisire l’intero territorio degli oblast’ di Lugansk e Donetsk, estraneo alle sedicenti repubbliche indipendenti, comprendente anche la città di Mariupol, porto dal valore strategico presente sulla costa del mare d’Azov.

Forse quanto necessario per offrire una cantata vittoria all’opinione pubblica russa. Ma l’eventuale bottino di guerra pare troppo striminzito per sopravvivere a un vaglio non di parte. Dopo aver provocato migliaia di morti tra la popolazione civile, un imprecisato numero di caduti tra i propri soldati (forse 15mila?), compresi sette generali, dopo aver utilizzato un quantitativo ingente di munizioni, Mosca si trova a battersi per un brandello di terra che era già largamente dalla sua. Non esattamente un trionfo. Non solo perché si tratta di una manovra tuttora da realizzare, da portare a compimento – Mariupol è annunciata come prossima alla caduta da molte settimane.

Trattasi di un’eventuale conquista, poche decine di chilometri tra Lugansk-Donetsk e l’ex linea delle ostilità, che era possibile perseguire attraverso le milizie autoctone, senza scatenare una guerra di grande portata. Quasi il Cremlino avesse smarrito la capacità di incidere sugli eventi in forma surrettizia, attitudine che era stata finora il suo marchio di fabbrica, preferibile per il risparmio di vite umane, nonché di costi economici e finanziari.

Il fallimento

Anziché carpire la popolazione locale offrendo un migliore stato sociale oppure semplicemente avvicinarla attraverso la comune radice culturale, l’Orso ha voluto prenderla con la forza, provocando l’inevitabile crisi di rigetto di chi, pure legato alla medesima madre slava, rinnega ogni aderenza alla potenza che ne distrugge l’abitazione e ne stermina la famiglia.

Per cui Mosca potrebbe presto dotarsi, a un costo esorbitante, di un ulteriore cuscinetto, posto immediatamente al di là della frontiera. Con conseguenze drammatiche sulla propria tenuta. Dopo aver istigato la reazione commerciale e militare dell’occidente guidato dagli americani, ora si trova nelle grinfie della Cina, pronta a spolpare il finto alleato slavo. Perché nei prossimi anni Pechino aumenterà certamente l’acquisto di idrocarburi siberiani e grano russo, ma a un prezzo inferiore rispetto a quello fin qui pagato dagli europei, forte di una capacità di ricatto nettamente maggiore alla nostra.

È questa la principale sconfitta per il Cremlino. Ogni impero vive anzitutto di credibilità, della propria immagine riconosciuta, specie la Russia da molti decenni mancante dei mezzi per sostenere le velleitarie ambizioni di potenza. Negli ultimi anni era riuscita a raccontarsi come un soggetto eccezionalmente efficace e minaccioso, a fronte di un relativo dispendio di energie, attraverso campagne discretamente semplici come quelle condotte in Siria o in Libia. Le disastrose operazioni attuate in Ucraina squarciano inevitabilmente tale propaganda, la rendono non più percorribile.

Dopo i fatti di queste settimane, impossibile ritenere l’Orso un soggetto all’altezza di Cina e Stati Uniti – se non per dolo, per magnificare un nemico utile a gonfiare i bilanci della difesa. Più concretamente, Putin sa che nel prossimo futuro la paura esercitata sugli altri di cui vive la sua nazione andrà inevitabilmente scadendo, sommersa dalle immagini di mezzi antiquati impantanati nel fango ucraino, dalle scene di soldati russi spaesati, tipiche di una media potenza militare, non certo di un egemone indiscusso.   

Danno ingente, da cui sarà complesso riprendersi nell’immediato, fallimento innegabile della guerra. Poco cambierà pure se Mosca imponesse la neutralità a Kiev – giacché questa si tradurrà comunque in una non dichiarata appartenenza al fronte occidentale. Né se le impedisse di aderire alla Nato – nessun membro dell’Allenza atlantica ha mai concretamente sognato di accogliere il paese di Zelensky. Né se l’armata si prendesse l’intero Donbass, regione da tempo controllata da remoto, come dimostrato nel 2018 dal blocco imposto alle navi ucraine nel mare d’Azov.

Niente potrà mascherare le nefaste sofferenze provocate dalla disinvoltura del Cremlino, tanto ingenti da trasformare la Russia in un socio di minoranza dell’impero cinese. Destino umiliante per chi tempo fa rifiutò di assumere il medesimo ruolo nello schema americano.

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