Il cardinale cattolico novantenne Joseph Zen Ze-kiun, vescovo emerito di Hong Kong e figura di rilievo del movimento pro democrazia nella regione, è stato condannato al pagamento di sanzioni per la mancata registrazione di un fondo di assistenza umanitaria, creato per sostenere economicamente gli attivisti a processo per le proteste del 2019. 

Insieme a lui il tribunale di West Kowloon ha condannato, per le stesse motivazioni, anche la celebre cantante Denise Ho Wan-see, l'ex professore dell'università di Lingnan Hui Po-keung e gli ex deputati di opposizione Margaret Ng Ngoi-yee e Cyd Ho Sau-lan.

La sentenza impone un risarcimento fino a un massimo di 4mila dollari di Hong Kong, l’equivalente di poco più di 490 euro. Per il sesto imputato, Sze Ching-wee, segretario del fondo, la pena pecuniaria è stata dimezzata per via del ruolo minore giocato nella vicenda. Tutti i condannati si sono dichiarati non colpevoli delle accuse. 

La questione giudiziaria

Secondo la corte il fondo 612 Humanitarian Relief non è stato regolarmente registrato, come previsto dall’ordinanza sulle società vigente a Hong Kong. Istituito a giugno del 2019, poco dopo l’inizio delle proteste popolari contro il governo cinese, il fondo era nato con lo scopo di raccogliere donazioni, attraverso il crowdfunding online, da impiegare per garantire assistenza legale e medica ai manifestanti coinvolti negli scontri con le forze dell’ordine. 

L’organizzazione, sciolta a ottobre 2021 dopo un’indagine della polizia su donatori e beneficiari dei finanziamenti, in poco più di due anni ha raccolto l'equivalente di 33 milioni di euro attraverso 100mila depositi. La corte, che ha condannato il cardinale Zen e gli altri esponenti della società civile, ha sostenuto che i proventi non sarebbero stato utilizzati unicamente come sostegno economico ai singoli manifestanti, ma anche come fonte di sponsorizzazioni per il movimento antigovernativo.

La posizione del Vaticano

Con l’accusa di non aver depositato la registrazione del fondo multimilionario presso le autorità competenti, Zen e gli altri attivisti erano stati rinviati a giudizio a fine settembre. Ma per il porporato questo non è il primo, nè il peggiore, guaio giudiziario con i tribunali di Hong Kong. L’11 maggio scorso la polizia lo aveva arrestato accusandolo di «collusione con forze straniere». Un’eventualità che, in base a quanto previsto dalla Legge sulla sicurezza nazionale in vigore dal luglio 2020, sarebbe costata al cardinale una lunga detenzione o, in caso di applicazione severa della norma, anche il carcere a vita.

Allora sono arrivate pressioni direttamente dalla portavoce della Casa bianca che ha chiesto la «liberazione immediata». E tempestivo è stato anche l’allarme lanciato dalla Santa Sede, che attraverso le parole del direttore della sala stampa vaticana, Matteo Bruni, aveva fatto sapere di aver accolto «con preoccupazione la notizia dell’arresto», promettendo di seguire con «estrema attenzione» la questione e i suoi sviluppi. 

Nei mesi a venire, tuttavia, ai proclami non ha fatto seguito un sostegno altrettanto sollecito per l’esponente cattolico cinese, né alcuna presa di posizione critica nei confronti di Pechino. Un silenzio ritenuto da più parti imbarazzante e imbarazzato, perché imposto da esigenze di “buon vicinato” con la Cina. Con il paese asiatico, infatti, il Vaticano ha recentemente rinnovato un accordo sulla nomina dei vescovi, che i critici giudicano controverso. 

I rapporti tra Cina e Santa Sede

Il 22 ottobre scorso, il segretario di Stato della Santa Sede, Pietro Parolin, annunciava il prolungamento dell’intesa sottoscritta da Vaticano e Repubblica popolare cinese nel 2018. Un accordo “ad experimentum”, cioè sperimentale, temporaneo, e pertanto secretato, visto come il punto di arrivo un percorso lungo settant’anni.

A rompere i legami diplomatici tra i due stati, nel 1951, fu proprio la nomina dei vescovi cattolici nella Cina continentale. Secondo Pechino, è competenza dell’Associazione patriottica cattolica cinese, l’organo del partito comunista concepito per controllare l’influenza della chiesa nel paese. Secondo il Vaticano, è diritto esclusivo del papa.

L’intesa rinnovata il mese scorso ha portato alla nomina di due nuovi prelati, uno nella regione autonoma della Mongolia interna e uno nella provincia dello Shaanxi, anticipate da una dichiarazione, per così dire programmatica, di Parolin: «In Cina non ci sono più vescovi illegittimi, questo è un passo notevole e da qui si tratta di partire per cercare di trovare una normalizzazione per la vita della chiesa».

La diatriba Zen-Papa Francesco

Aldilà dei contenuti dell’accordo che, come detto, restano segreti, la scelta «pensata, riflettuta, pregata» da papa Francesco di aprire un canale di comunicazione con la Repubblica popolare appare conforme all’impronta geopolitica e diplomatica di questo pontificato. Meno arroccato su posizioni di conservatorismo politico di chiunque lo abbia preceduto, in questi ultimi dieci anni papa Francesco ha mostrato tendenze progressiste che sono risultate indigeste a più di un elemento interno alla chiesa. 

E il cardinale Joseph Zen è tra gli oppositori della prima ora. Irriducibile antagonista dell’avvicinamento tra Santa sede e Cina e particolarmente agguerrito proprio sul tema delle nomine vescovili. Quando, nel 2018, le due parti sottoscrissero la storica intesa, al Corriere della Sera disse esplicitamente che il Vaticano stava svendendo la chiesa cattolica in Cina e che questo avveniva perché a piazza San Pietro i «comunisti cinesi al potere» non li conoscono bene quanto lui. 

E, in questo senso, il sentimento anticomunista che anima le convinzioni e l’operato di Zen è radicato nella sua stessa storia. Nato nel 1932 a Shangai, la fine della guerra civile e la nascita della Repubblica Popolare Cinese lo convinsero, diciassettenne, a rifugiarsi a Hong Kong. Il materialismo e la secolarizzazione dell’era Mao lo porteranno a vivere stabilmente nell’ex colonia britannica, con una parentesi anche in Italia.

Oggi, a 90 anni, Zen resta fermo nella convinzione che la chiesa potrà esercitare un ruolo d’influenza nella società cinese solo dopo aver assistito al crollo del comunismo. Ma la sua visione non sembra incontrare il favore di papa Francesco che, nell’attesa, propende per un crescente dialogo con la controparte.

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