Dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas, le famose spiagge di Tel Aviv sono vuote. Molti bar e ristoranti che lavorano molto con i turisti non hanno più riaperto. Lo stesso vale per negozi di vario tipo.

Dal 7 ottobre gli stranieri in vacanza si sono affrettati a rientrare nei loro paesi. Chi, invece, doveva andarci ha cancellato le prenotazioni di hotel, bed and breakfast e appartamenti, normalmente senza pagare alcuna penalità.

Decine di voli di compagnie straniere sono stati sospesi, tanto che i primi giorni dopo lo scoppio della guerra, molti paesi hanno predisposto voli speciali per rimpatriare i propri cittadini in vacanza in Israele.

Le difficoltà del settore turistico israeliano, che con l’indotto vale circa il 6 per cento del pil del paese, sono solo uno degli ormai innumerevoli segnali di come le prospettive per l’economia israeliana, il cui buon funzionamento è vitale per sostenere lo sforzo bellico, siano dominate dall’incertezza più totale. Oltre a essere combattuta con le armi, la guerra è anche combattuta con l’economia.

Non essendo il primo conflitto che Israele si trova ad affrontare si fanno da più parti paralleli con le guerre precedenti. Gli altri scontri con Hamas, avvenuti dopo l’uscita definitiva di Israele da Gaza del 2005, sono stati di entità di gran lunga inferiore, comportando spese militari e di ricostruzione che non hanno intaccato sensibilmente il bilancio dello Stato.

Invece, la guerra di 50 anni fa dello Yom Kippur portò Israele sull’orlo del collasso finanziario, a causa delle spese militari e dell’utilizzo di circa 200.000 riservisti sottratti alla forza lavoro del paese. Secondo dati della Banca centrale di Israele un anno di intifada – le sollevazioni palestinesi avvenute dalla fine degli anni Ottanta fino agli anni 2000 – hanno sottratto al pil del paese il 3,8 per cento.

I fondamentali

L’economia israeliana di ora è però un altro mondo rispetto a quella di quegli anni. Infatti, un dato positivo che gli economisti israeliani fanno notare è la situazione buona in cui versava il paese, dal punto di vista economico e finanziario, quando la guerra è scoppiata il 7 ottobre.

«I fondamentali di partenza sono molto solidi, a partire dal basso debito pubblico e dalle ampie riserve della banca centrale. Le grosse incognite sono la durata della guerra e la sua estensione dato che tutte le valutazioni ora si basano sul fronte principale di Gaza e un conflitto a bassa intensità al nord» spiega Tomer Fadlon, economista dell’Institute for National Security Studies di Tel Aviv.

Senza dubbio, riconoscono gli esperti, l’andamento dell’economia era stato danneggiato dall’instabilità politica dovuta alle continue proteste contro la riforma della giustizia voluta fortemente dal governo di Benjamin Netanyahu, che ha provocato la mobilitazione di vari strati della popolazione israeliano, incluso quello di un settore vitale per l’economia israeliana e cioè quello della fiorente industria tecnologica israeliana.

Gli investimenti dall’estero erano calati considerevolmente durante l’anno, si era parlato addirittura di una fuoriuscita di depositi bancari del paese e l’instabilità politica aveva avuto sicuramente un impatto sulle prospettive di crescita economica del paese.

Malgrado ciò, la Banca centrale israeliana prevedeva una crescita del 3 per cento per il 2022, stima che è stata abbassata al 2,3 per cento, dopo l’inizio della guerra di Gaza. Altri enti danno stime però più caute. L’ente di ricerca Oxford Economics, per esempio, prevede una crescita dell’1,9 per cento per quest’anno, con ricadute negative anche per il prossimo.

Uno dei problemi principali dal punto di vista economico che il paese si trova ad affrontare è l’ingente numero di riservisti richiamati per la guerra, circa 360mila. Queste persone rappresentano l’8 per cento della forza lavoro. L’impatto immediato sarà una riduzione della produzione di beni e servizi, in particolare nei settori che impiegano proporzionalmente molti lavoratori giovani.

Qui, la preoccupazione è soprattutto per l’impatto sul settore high-tech, spiega Oxford Economics, che contribuisce per un quinto del pil del paese. Secondo alcune stime, tra il 10 e il 15 per cento della sua forza lavoro è stata richiamata dall’esercito israeliano.

Inoltre, il settore high tech israeliano è più produttivo di un quarto rispetto alla media dei paesi Ocse, mentre il resto dell’economia israeliana è per due-quinti meno produttiva.

Un sondaggio realizzato dall’Israel Innovation Authority due settimane dopo l’inizio della guerra aveva rilevato che il 70 per cento delle imprese high-tech del paese aveva difficoltà ad operare regolarmente, principalmente a causa della grande quantità di lavoratori richiamati dall’esercito.

In generale, il brusco rallentamento dell’attività economica dovuto alla guerra avrà un impatto significativo sul mercato del lavoro, che comunque partiva da livelli molto sani con un tasso di disoccupazione del 3, per cento in settembre, portando a licenziamenti in particolare del settore del turismo, dice Oxford Economics.

A questo si somma anche la mancanza di lavoratori meno specializzati, molti dei quali palestinesi della Cisgiordania, a cui in molti casi non è consentito oltrepassare il confine per andare a lavorare in Israele.

Oltre al settore turistico per cui Oxford Economics prevede un calo degli arrivi del 75 per cento per l’ultimo trimestre dell’anno, le stime danno inevitabilmente in calo anche i consumi privati dovuti alle chiusure temporanee di varie attività, un generalizzato peggioramento delle prospettive di consumo e il richiamo di così tanti riservisti.

Aiuti di stato

Mercoledì, la Knesset, il parlamento israeliano, ha varato un provvedimento di aiuti all’economia stanziando fondi per la continuità delle attività che hanno perso almeno il 25 per cento del proprio fatturato in ottobre. Vari lavoratori sono anche stati messi in cassa integrazione.

C’è poi il capitolo delle spese militari, anch’esse totalmente dipendenti dalla durata della guerra, che evidentemente avranno un peso, malgrado la solidità dell’economia israeliana.

Per ora, la banca centrale israeliana ha deciso di non abbassare i tassi di interesse, lasciandoli invariati. Ha adottato anche varie misure di sostegno all’economia, in particolare a sostegno dello shekel, la moneta israeliana, annunciando un programma di vendita di riserve in moneta estera che può costare fino a 30 miliardi di dollari.

«C’è una grossa incertezza riguardo alla profondità e durata dell’impatto e questo sarà influenzato dall’entità del conflitto», ha scritto la banca centrale in occasione della decisione di lasciare i tassi invariati.

«L’economia israeliana è forte, stabile e basata su fondamentali solidi e, in passato ha dimostrato la sua capacità di riprendersi da periodi difficili» ha continuato, mostrando un cauto ottimismo.

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