I nove giudici che agitano Trump, la Corte e il destino degli Usa

L’amministrazione Trump ha fatto un appello urgente alla Corte suprema, chiedendo di valutare la costituzionalità dei dazi che ha imposto e che un corte d’appello federale ha temporaneamente bloccato, sulla base del fatto che il potere di imporre tariffe doganali spetta al Congresso. Questa è la sintesi nei termini della cronaca. In termini politici, la stessa cosa si può raccontare così: l’amministrazione Trump sta mettendo un’enorme pressione, arrivando fino al ricatto, sulla Corte suprema, organo che dovrebbe essere al di sopra dei condizionamenti della politica, ma che il presidente crede di poter controllare perché sei giudici su nove sono riconosciuti come conservatori, mentre gli altri tre sono di corrente liberal. Trump vuole il Nobel della pace ma prepara il dipartimento della Guerra Trump nel primo mandato presidenziale ha avuto la rarissima opportunità di nominarne tre, Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett. I giudici rimangono in carica a vita, selezionarne tre può voler dire cambiare il volto del paese per una generazione, e nel suo mondo, fatto di devozione personale e lealtà tribale, ora si aspetta che le toghe gentilmente piazzate al vertice del potere giudiziario gli diano il permesso di fare tutto ciò che vuole. Il ruolo della Corte suprema è cruciale in termini generali, per via della struttura dell’ordinamento della repubblica e del suo poggiarsi sui fondamenti della common law, ma è ancora più importante date le circostanze particolari: Trump sta estendendo al massimo i limiti del potere presidenziale, governa a colpi di ordini esecutivi, i legali della Casa Bianca rispolverano dai codici leggi antiche e dimenticate per fornire giustificazioni ex post legalmente sostenibili ai desideri dell’inquilino della Casa Bianca, ed è naturale che questo suo imperiale agitarsi trovi sulla strada gli sbarramenti dei tribunali di ogni ordine. Non passa giorno senza che un’aula di tribunale non produca una sentenza che blocca qualcuna delle disposizioni della Casa Bianca sui temi cruciali: immigrazione, dazi, confini, difesa. Inevitabilmente, questa dinamica fa sì che i grandi nodi politici della presidenza stiano salendo, più o meno rapidamente, verso la Corte suprema, arbitro finale di tutte le dispute. Ed è lì che l’amministrazione sta mettendo tutta la pressione politica di cui è capace. La strategia dei capricci, così Trump domina l’Europa Evocare l’apocalisse Nel caso dei dazi, Trump si sta spingendo fino alle soglie del ricatto. Per bocca dell’avvocato dello stato, John Sauer, l’amministrazione ha chiesto di valutare l’appello entro la prossima settimana, di aprire il dibattito entro l’inizio di novembre e di «accelerare la decisione finale al massimo», perché «la posta in gioco non potrebbe essere più alta». Trump ha detto la stessa cosa in termini più diretti: «Se fosse confermata, la decisione del tribunale distruggerà letteralmente gli Stati Uniti d’America». Sintesi: se la Corte suprema non obbedisce agli ordini del presidente, rovesciando le decisioni di altri tribunali, si apriranno le porte dell’apocalisse. All’inizio del secondo mandato di Trump la Corte suprema ha emesso una sentenza importante che approva nella sostanza la visione espansiva dei poteri presidenziali che Trump si è arrogato, facendo leva su una discussa interpretazione del dettato costituzionale. Stati Uniti, la Corte suprema fa un regalo a Trump sullo ius soli: americani non si nasce più L’amministrazione ha visto in questa decisione preliminare una specie di lasciapassare che segnalava un successivo allineamento con la linea politica del presidente. In effetti, i giudici supremi hanno in diversi casi espresso sentenze favorevoli alle politiche di Trump, ma la lunga sequenza di contestazioni a livello della giustizia federale stanno progressivamente ingombrando le scrivanie dei giudici supremi, moltiplicando le occasioni di scontro con la Casa Bianca. Trump può contare sull’allineamento di alcuni giudici, innanzitutto i veterani conservatori, Samuel Alito e Clarence Thomas, che negli ultimi anni sono finiti al centro di vari scandali famigliari che li hanno indeboliti. Anche Gorsuch e Kavanaugh sono solidamente nella lista dei buoni della Casa Bianca, mentre il capo della Corte, John Roberts Jr. – nominato da George W. Bush – è la voce pragmatica e istituzionale che in diverse occasioni non si comportato come la parte più intransigente del mondo conservatore sperava. La questione più complicata, per Trump, riguarda Amy Coney Barrett, stella del firmamento giudiziario che il presidente ha nominato alla Corte suprema quando aveva 48 anni, credendo di assicurare al mondo conservatore una fedele soldatessa che avrebbe confermato senza sbavature le volontà dell’amministrazione. E invece dall’inizio del suo mandato, Barrett ha dimostrato una certa indipendenza, entrando inaspettatamente in rotta di collisione con il mondo MAGA. Trump non riesce più a prendersi la scena: «L’Ue non compri più petrolio dai russi» «Amy Commie Barrett» Nell’universo dei più scalmanati sostenitori del presidente, Barrett è considerata una liberal sotto mentite spoglie, una che ha rapidamente scalato i ranghi della magistratura innanzitutto perché è donna, qualificandosi come una «DEI hire», una persona scelta secondo i tanto odiati criteri di selezione woke. Negli ultimi mesi Barrett si è discostata dalla linea trumpiana in diverse occasioni. A marzo si è unita alla maggioranza nel respingere il tentativo di Trump di sospendere 2 miliardi di dollari in aiuti esteri, e poi si è schierata insieme ai liberali in un caso relativo al discusso ricorso all’Alien Enemies Act per deportare sospetti criminali in Venezuela o El Salvador, imponendo il rispetto del giusto processo. I conservatori l’hanno attaccata duramente, arrivando a definirla «Amy Commie Barrett», una comunista travestita da conservatrice, ed è entrata nella lista degli obiettivi polemici di Steve Bannon, ex stratega trumpiano sempre molto attivo nel ruolo di distributore di patenti di purezza MAGA. Gli abiti nuovi di Amy Coney Barrett Si è anche allineata con i liberal contro il tentativo di Trump di smantellare lo ius soli, disposizione contenuta in modo inequivoco nel 14esimo emendamento alla Costituzione, poi ulteriormente confermato da una importante sentenza alla fine del XIX secolo. Gli attacchi da destra a Barrett sono stati così aggressivi e scomposti da indurre il capo della Corte a intervenire – pur senza citarla per nome – con un inusuale monito contro gli attacchi personali ai giudici. Nella prossima, delicatissima fase del rapporto fra l’amministrazione e la Corte suprema, sarà innanzitutto il nome di Barrett quello da tenere d’occhio. E lei ha voluto dare qualche indicazione sulla posizione che terrà con un libro, in uscita il 9 settembre negli Stati Uniti. La conferma di Barrett è certa. Il Covid si diffonde nello staff del vicepresidente Pence Il libro s’intitola Listening to the Law – Reflections on the Court and Constitution – e naturalmente l’autrice si guarda bene dall’avventurarsi in qualunque considerazione politica e sta alla larga da qualunque dibattito intorno a Trump. Ma il messaggio di fondo è chiarissimo: Barrett compone una strenua difesa del ruolo del giudice come serafico servitore della legge, castigando ogni tentazione di attivismo politico o di uso strumentale della discrezionalità di chi è chiamato a discernere la compatibilità dei casi della vita reale con il dettato costituzionale. Nel libro Barrett smonta l’idea che i giudici della Corte suprema debbano aspirare all’esecuzione della giustizia, spiegando che invece devono rigorosamente limitarsi al riferimento alla legge. «Quando siamo in aula, dobbiamo sopprimere le nostre convinzioni individuali per deferenza a quelle che si sono affermate nella legge approvata. Il nostro lavoro è proteggere le scelte che i cittadini hanno fatto, anche quando siamo in disaccordo con esse». Chi deve intendere, intenda.