La presidenza di Joe Biden viene da una lunga serie di vittorie legislative, culminate con l’approvazione di un rinnovato piano di azione climatica, ridotto rispetto alle attese, ma comunque portato a compimento dopo una lunga trattativa all’interno della variegata coalizione democratica.

C’era però un’ombra incombente: la possibile vittoria di Donald Trump nel 2024. A preoccupare non era tanto la sua rielezione legittima, quanto il fatto che questa potesse avvenire con mezzi fraudolenti. In estrema sintesi: si sarebbe potuto tentare con maggiore perizia quanto fatto il 6 gennaio 2021. Un ribaltamento del voto, ma realizzato con meno improvvisazione.

La cosa preoccupante è che questa opzione estrema non è esplicitamente proibita dalla normativa vigente, il Vote Count Act del 1887, varato per evitare che si ripetesse quello che accadde nel 1876, ovvero un accordo sottobanco tra i partiti per decidere che l’elezione dovesse andare al repubblicano Rutherford Hayes, finendola con le controversie nei vari stati. In cambio, i democratici, all’epoca conservatori e razzisti, ottenevano il ritiro delle truppe federali dal sud per poter implementare una massiccia restrizione dei diritti civili degli afroamericani.

Anche quel provvedimento però, ha due punti deboli aggirabili: non afferma esplicitamente il ruolo strettamente notarile del vicepresidente (che quindi non può respingere gli elettori a suo piacimento) e demanda la soluzione di gran parte delle controversie agli stati. E in alcuni di essi le legislature hanno maggioranze strutturalmente repubblicane, frutto di anni di “gerrymandering”, vale a dire il disegno di collegi uninominali in modo da concentrare il più possibile degli elettori progressisti in pochi distretti e massimizzare il guadagno elettorale anche in caso di risultati sfavorevoli.

Vote Count Act

Sorprendentemente, una legge proposta dalla senatrice repubblicana moderata Susan Collins, anch’essa chiamata Vote Count Act, non ha attratto soltanto i soliti noti repubblicani, vale a dire quel manipolo di centristi costituito dalla stessa Collins, da Lisa Murkowski e da Mitt Romney. Sono arrivati altri sette senatori repubblicani, con varie motivazioni. Rob Portman dell’Ohio, ad esempio, ha annunciato il ritiro lo scorso anno. Altri, come il senatore Thom Tillis, Todd Young o Shelley Moore Capito, sono fedeli soldati agli ordini del leader Mitch McConnell, che finora non ha mostrato alcun interesse a correggere una legge datata come quella del 1887.  Uno dei dieci firmatari, Lindsey Graham del South Carolina, di solito è un fedele alleato di Donald Trump: recentemente ha dichiarato che qualora Trump venisse incriminato dal dipartimento di Giustizia, «ci sarebbero delle rivolte nelle strade».

Il sostegno decisivo è stato ancora più inaspettato: si tratta di Chuck Grassley, senatore dell’Iowa quasi novantenne, in corsa per la rielezione a novembre con il sostegno di Donald Trump. Lo ha annunciato con un comunicato stampa. 

Le modifiche

Cosa prevede il nuovo provvedimento? In primis: le controversie a livello statale le dirime in modo decisivo il governatore. Altre obiezioni provenienti dai segretari di stato e dai procuratori generali (a far partire un ricorso alla Corte suprema nel 2020 è stato il procuratore Ken Paxton del Texas) non saranno più accettate.

Viene esplicitato il ruolo di certificazione del vicepresidente in carica: può solo leggere i risultati elettorali, senza nulla aggiungere. Il tempo per una revisione giudiziaria chiesto da uno dei candidati alla presidenza è di soli sei giorni. Si eviterebbe quindi quel circo mediatico innescato dal team legale guidato da Rudy Giuliani nel 2020, con ipotesi fantasiose e conferenze stampa improvvisate che si sono trascinate per oltre un mese.

Non basta più un solo membro per camera per rivedere un risultato a livello, ma serve un quinto dei membri di entrambi i rami del Congresso. Infine, gli stati possono spostare le elezioni solo per eventi «catastrofici». I potenziali ribaltamenti elettorali vengono quindi definitivamente sventati? No.

Come scritto sul Washington Post dal professore Lawrence Trimble dell’Università di Harvard, non viene contemplata la possibilità che un governatore trumpiano decida di annullare un’elezione, né che una maggioranza di repubblicani di stretta osservanza trumpista decida di ribaltare un risultato al Congresso. Anche gli eventi «catastrofici» sono definiti in modo forse troppo vago e magari anche delle manifestazioni di piazza violente potrebbero fornire il pretesto necessario.

Insomma, ci sono dei punti critici in questa riforma. Si può però affermare che il potenziale per una svolta autoritaria americana viene molto ridotto. Anche grazie alla collaborazione di un’ala repubblicana che comincia a rendersi conto della nocività trumpista anche per quanto riguarda l’appetibilità elettorale del partito repubblicano.

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