Terza guerra mondiale a pezzi è l’efficace espressione con cui papa Francesco inquadra l’epoca conflittuale che stiamo vivendo. A parte la formula giornalisticamente sexy, il senso della cosa è aperto a varie interpretazioni. L’attacco di sabato scorso di Hamas in Israele offre materiale per riesaminare lo scenario. 

Guerra mondiale a pezzi significa letteralmente che i focolai bellici sparsi per il mondo sono parte di un’unica guerra globale. Detto altrimenti: siamo di fronte a una serie di conflitti che vanno intesi come guerre per procura e non come eventi indipendenti.

Anche l’attacco di Hamas, e il conseguente assedio di Gaza da parte di Israele, si può leggere in questa cornice interpretativa. Sulla regia dell’Iran molto è stato scritto e altrettanto è stato smentito per vie ufficiali, ma si può ragionevolmente sostenere che senza decisivi sostegni esterni Hamas non sarebbe stata in grado di pianificare, finanziare ed eseguire un piano di attacco così elaborato. Il gruppo terroristico aveva bisogno di risorse, certo, ma anche di silenzi e coperture di altri attori interessati e coinvolti a vario titolo nella vicenda.

Nel frattempo la Russia, che ha mantenuto sempre buoni rapporti con Israele, ha mostrato il suo distacco con lunghi giorni di silenzio e senza nemmeno un comunicato di cordoglio. Quando Vladimir Putin ha parlato lo ha fatto per dare la colpa alla politica degli Stati Uniti in Medio Oriente, che non tiene conto dei palestinesi. Un po’ poco per un leader che Benjamin Netanyahu aveva definito «particolarmente amichevole» verso gli ebrei.

La Cina ha mandato svogliati segnali di condanna degli attacchi che sono stati poi goffamente rafforzati dopo un intervento americano, ma comunque il regime di Xi non ha citato Hamas e più in generale non ha ricambiato nemmeno un po’ della vicinanza che Netanyahu si è sforzato di esprimere in tempi recenti.

Ricomponendo i pezzi della guerra mondiale emerge dunque un disegno: tre fondamentali attori della regione – Iran, Russia e Cina – uniti fra loro da legami in via di solidificazione, hanno infine trovato il modo di dividersi i tre fronti di un più conflitto lungo che ha come nemico l’occidente e le sue strutture democratiche e liberali, incarnate nella sua forma più compiuta dagli Stati Uniti.

La Russia è impegnata sul fronte ucraino, la Cina su quello di Taiwan e l’Iran su quello palestinese, che ha la caratteristica non trascurabile di essere la causa che rivitalizza ed eccita i peggiori istinti dell’intero mondo islamico. L’adesione alla chiamata in piazza di oggi, nel primo venerdì di preghiera dopo l’aggressione in Israele, darà la misura del consenso di cui gode chi sgozza gli ebrei.

Questi tre pezzi della guerra mondiale hanno disintegrato lo spirito degli Accordi di Abramo e fermato il percorso di normalizzazione a guida americana dell’area, rovinando i piani di qualcuno (l’Arabia Saudita, probabilmente) ma aprendo per altri nuovi scenari di disallineamento e multilateralismo creativo. La Turchia di Erdogan in questo è maestra.

La guerra in Ucraina ha avuto l’effetto di ricompattare l’occidente, ma ha anche allontanato il sud globale. In modo analogo, l’attacco di Hamas chiama a raccolta gli amici di Israele, ma allo stesso tempo allontana una schiera di nemici storici e antipatizzanti d’occasione che appare sempre più folta. Joe Biden si è espresso senza tentennamenti su Israele, ma poi ha mandato il segretario di Stato, Antony Blinken, ad assicurarsi che le manovre di Israele non finiscano per innescare un allargamento.

Finché la guerra mondiale è a pezzi, la superpotenza americana può affrontare e gestire le crisi. Se i pezzi si saldano fra loro, le cose si complicano.

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