Oltre la cortina della propaganda fatta di proclami e ingiurie, sulla guerra in Ucraina si sta lentamente delineando una possibilità di negoziato. Durante la sua visita a Washington il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha parlato con Joe Biden di un piano in 10 punti; lo stesso Vladimir Putin ha accennato alla possibilità di sedersi al tavolo delle trattative.

Ovviamente entrambi mantengono posizioni di partenza piuttosto rigide: devono tener conto dei rispettivi fronti interni e ciò vale soprattutto per i russi. Da una parte la leadership ucraina non vuole scoraggiare i propri militari dando l’impressione di cedevolezza proprio mentre prosegue la controffensiva e si spera di liberare altri territori occupati.

Dall’altro la dirigenza russa non può ammettere nemmeno la più piccola parvenza di sconfitta, anche se è abbastanza evidente che si tratta di un mimetismo destinato a cadere.

Nazionalismo russo

Aver evocato il nazionalismo “grande russo” scagliandolo con così tanta violenza e aggressività contro gli ucraini, ha messo in moto dentro la Russia un ingranaggio difficile da arginare con effetti non del tutto prevedibili. Ciò che appare tra le righe è che entrambe le leadership stiano pragmaticamente rendendosi conto (in maniera assai diversa ma parallela) che il conflitto non può e non deve durare in eterno.

Dopo aver mostrato un’inaspettata quanto grave carenza militare, Mosca si ritrova isolata e quasi tutti i suoi potenziali alleati non celano le proprie critiche per la funesta decisione presa il 24 febbraio scorso. Per ora non sono tanto le sanzioni occidentali a pesare ma la condizione di doversi continuamente giustificare senza avere altra reale prospettiva. Lo stesso Erdogan, che tanto si è speso per mediare, ha dato recenti segnali di impazienza e nervosismo.

Nulla è sicuro

Kiev dal canto suo sa che l’appoggio militare americano e europeo non potrà durare in eterno: a Washington è stato spiegato al presidente ucraino che è tempo di pensare a come uscirne. L’unica cosa che gli occidentali, per adesso, non vogliono fare è sostituirsi agli ucraini: sono questi ultimi a dover decidere quando e come si inizierà a dialogare, scontentando i russi che preferirebbero trattare con gli americani, passando sopra la testa degli ucraini (e degli europei beninteso).

Inoltre Zelensky sa anche che dovrà comunque fare i conti con i suoi complicati vicini europei, sia per la ricostruzione sia per lo sviluppo futuro del paese: è consapevole dei malumori tedeschi e delle aspirazioni francesi alla pace, come pure è cosciente che non gli basterà l’alleanza polacca per uscire dalla guerra.

Potrà questa situazione sbloccarsi, svoltando con decisione verso la trattativa? Dopo tanti mesi di guerra nulla è sicuro. Il conflitto potrebbe continuare anche perché sono cadute le illusioni – alquanto maldestre – di chi vaticinava un rapido crollo di una qualsiasi delle due parti: gli ucraini resistono e contrattaccano; i russi non hanno finito i missili e stanno rendendo l’Ucraina invivibile.

Come Cipro

A questo punto alcuni ipotizzano uno schema “tregua senza negoziato”: una cessazione delle ostilità che congeli la situazione anche se i protagonisti non ne riconoscessero la legittimità politica. Si tratterebbe cioè di una soluzione “alla Cipro”, che avrebbe il merito di far tacere le armi e preparare le condizioni per colloqui ulteriori, con il rischio che ciò non avvenga mai, come appunto per Cipro.

Lo sforzo maggiore si sta concentrando tuttavia sull’avvio di un reale incontro tra le parti. A tale livello tutto gira attorno a quale formula adottare. Kiev parla di trattare sotto l’egida delle Nazioni unite. Probabilmente Mosca non apprezza ma non può screditare quel foro multilaterale a cui ha sempre detto di attenersi.

Nella tattica preliminare che potrebbe portare ai negoziati, va tenuto conto di cosa può significare oggi pace per l’Ucraina e guerra per la Russia. Per quest’ultima la necessità è di salvare la faccia: a detta di tutti gli esperti strategicamente Mosca ha perso perché non è riuscita a sottomettere gli ucraini.

Cambiare i confini

Tuttavia dal punto di vista tattico Mosca potrebbe sostenere l’opposto per il solo fatto di aver carpito altri territori (soprattutto il controllo totale del mare di Azov) e averli annessi. Qui si apre la controversia “pace in cambio di territori” che gli ucraini dicono di non voler assolutamente accettare (e nemmeno i russi in verità) ma che prima o poi emergerà, come accade in una qualsiasi trattativa di questo tipo.

Non c’è mai stata una guerra europea che non sia terminata con una modificazione delle frontiere, né un negoziato postconflitto europeo che non sia finito con uno scambio di territori e/o di popolazione. Per quanto possa non piacere, anche nelle recenti guerre della ex Jugoslavia si è operato in tal senso, seppur molto dolorosamente.

Dovremmo ormai averlo appreso: è questa la conseguenza dei nazionalismi europei contrapposti, a dimostrazione che la guerra è sempre la scelta peggiore. Va tenuto poi conto che sono ormai numerosi gli alleati che sussurrano all’orecchio degli ucraini che sarà difficile, se non irrealizzabile, tornare ai confini del 1991.

Il disarmo

D’altronde la comunità internazionale e l’occidente avevano già de facto accettato le linee del fronte del 2014, o giù di lì. Tuttavia molti sostengono –non solo a Kiev  che accettare uno scambio di questo tipo confermerebbe la Russia nella sua aggressività e non farebbe che rimandare il problema. In altre parole si tratterebbe di un’implicita forma di “ricompensa” dell’aggressore che potrebbe essere portato a ripetersi.

Ecco perché un’eventuale trattativa non può lasciare da sole faccia a faccia Ucraina e Russia ma dovrebbe essere rinforzata da accordi internazionali simultanei, tali da inserire tutti i protagonisti in un quadro sostenibile che sconsigli ogni tentazione aggressiva russa nel futuro. Innanzitutto di tratta di affrontare la questione dell’arma nucleare, tanto spesso invocata da Mosca nell’attuale conflitto e quindi del tutto legittimamente negoziabile.

Un possibile accordo deve includere la ripresa del trattato Inf (quello delle armi nucleari tattiche in Europa a corto e medio raggio) per metterle al bando definitivamente. Su questo aspetto è cruciale il coinvolgimento degli americani. Il disarmo infine deve essere generale: non solo atomico ma anche convenzionale.

Una sola via d’uscita

Uno dei peggiori errori di questi decenni è aver tralasciato tale questione, quasi fosse secondaria. Affinché un negoziato che ponga termine alla guerra in Ucraina abbia possibilità di successo, serve che divenga molto più di ciò che fu Helsinki nel 1975. Mosca gradirebbe tornare ai princìpi di Helsinki quando si tratta di dividere l’Europa in zone di influenza ma oggi questo non è più possibile.

La rottura della pace europea ha un prezzo politico. Una “nuova Helsinki” dovrebbe quindi contenere, oltre che princìpi, aspetti politici e composizione degli interessi, anche disarmo multilaterale e garanzie politico-militari. Per fare un esempio: se i russi desiderano discutere di zone smilitarizzate ciò deve riguardare anche il loro territorio. Lo stesso dicasi per la neutralità e così via. Tutto deve avere un aspetto biunivoco, pena il fallimento.

Con la guerra è venuta meno la fiducia nel solo impegno politico: ci vuole qualcosa di più pregnante, che vada oltre la garanzia delle leadership e rassicuri davvero le popolazioni. Inoltre sulla questione dei territori, almeno di alcuni, si può usare la creatività della diplomazia che permette di inventare formule giurisdizionali molto sofisticate.

Dopo dieci mesi di una guerra molto sanguinosa, la comunità internazionale è giunta ad un bivio: trattare come unica alternativa ad un conflitto perenne. Di conseguenza la costruzione del quadro negoziale efficace necessita di molta immaginazione e di importanti sforzi congiunti. Numerose sono le formule possibili ma una sola la via di uscita: meglio negoziare duramente piuttosto che continuare il tragico spargimento di sangue. 

© Riproduzione riservata