Il presidente americano Joe Biden ha annunciato ieri la morte del leader dello Stato islamico, Abu Ibrahim al Hashimi al Qurayshi. Secondo le informazioni disponibili, la rischiosa operazione delle forze speciali americane assomiglia a quella che pose fine alla vita del precedente “califfo”, Abu Bakr al Baghdadi, nell’ottobre del 2019. Tra l’altro, in modo piuttosto sorprendente, l’area interessata è la medesima: il governatorato di Idlib, nel nordovest della Siria, ovvero un’area vicina al confine turco e controllata da una coalizione di gruppi ribelli dominata dagli jihadisti di Hayat Tahrir al Sham (Hts), già affiliati ad al Qaida e rivali dello stesso Stato islamico.

La leadership di Abu Ibrahim al Hashimi al Qurayshi è stata breve e per molti versi enigmatica. La sua nomina venne ufficialmente annunciata il 31 ottobre 2019, pochi giorni dopo la morte di al Baghdadi.

Del nuovo leader venne presentato soltanto un nome di battaglia: un riferimento alla sua presunta appartenenza al lignaggio hascemita della storica tribù araba dei Quraish, cui apparteneva il profeta Maometto; secondo una tradizione diffusa nell’islam i califfi (ovvero i successori del profeta) dovrebbero appartenere a tale tribù.

Lo Stato islamico non ha mai fornito altri dettagli sull’identità del suo massimo rappresentante. Curiosamente un’organizzazione che ha fatto notoriamente della comunicazione e della propaganda un proprio tratto distintivo, tanto più nei suoi anni d’oro (2014-2019), è stata quindi guidata da un leader rimasto completamente nell’oscurità, presumibilmente per ragioni di sicurezza, fino alla sua morte.

Le autorità antiterrorismo sono comunque giunte presto alla conclusione che dietro a quel nome di battaglia si celasse l’iracheno Amir Muhammad Sa’id Abdal Rahman al Mawla. Tra l’altro, menzionando esplicitamente questo nominativo, nel giugno del 2020 gli Stati Uniti hanno offerto una ricompensa di dieci milioni di dollari a chiunque fornisse informazioni utili per rintracciarlo.

Secondo le informazioni disponibili, al Mawla nacque nel 1976 in una cittadina a maggioranza turkmena del nord dell’Iraq. Dopo la laurea a Mosul e il servizio militare, il futuro “califfo” si unì alla causa jihadista e divenne un membro del gruppo armato che nel 2014 sarebbe diventato lo Stato islamico; lasciato alle spalle un periodo in carcere, salì rapidamente la gerarchia del gruppo (peraltro decimata da morti in combattimento e uccisioni mirate), dimostrando spiccate doti organizzative. Nelle dinamiche ideologiche interne allo Stato islamico al Mawla si attestò spesso su posizioni estreme; in particolare, è noto che sostenne la prospettiva della riduzione in schiavitù delle donne yazide, alla fine approvata e tragicamente attuata dall’organizzazione jihadista.

In questi mesi non sono trapelate informazioni sulle decisioni effettivamente assunte dal “califfo” al Qurayshi. Ci sono tuttavia indicazioni secondo cui l’organizzazione sotto la sua guida abbia assunto una struttura più decentralizzata. Il gruppo armato si è anche impegnato in numerosi attacchi clandestini in Siria e Iraq, talora con iniziative clamorose.

Riorganizzazione

Proprio pochi giorni fa lo Stato islamico ha lanciato la sua offensiva, la più importante da quando ha perso il territorio in Siria e Iraq nel 2019: il 20 gennaio, infatti, miliziani dell’organizzazione hanno assaltato una prigione della città di al Hasaka, nel nord della Siria, riuscendo a liberare centinaia di militanti jihadisti che vi erano detenuti. Soltanto dopo giorni di scontri intensi, le milizie a maggioranza curda, che controllano di fatto quell’area della Siria, sono riuscite a riprendere il controllo del carcere, con l’aiuto delle forze della Coalizione guidate dagli Stati Uniti. L’assalto alla prigione peraltro ha riportato l’attenzione sulla sorte di migliaia di presunti jihadisti stranieri e loro familiari detenuti in carceri improvvisate e in campi sovraffollati nel nord della Siria.

Al momento lo Stato islamico non ha ancora riconosciuto ufficialmente la morte del suo leader né ha prospettato il percorso per la sua successione. In questa fase di transizione, anche i simpatizzanti sul web mantengono una posizione di attesa, se non di negazione dei fatti.

Nel complesso, la morte del “califfo” costituisce un altro colpo inferto allo Stato islamico, sia sul piano organizzativo sia sul piano simbolico. Non sorprendentemente Biden, reduce dal fallimento della guerra in Afghanistan, ha prontamente sottolineato questo aspetto. D’altra parte, purtroppo, è facile prevedere che lo Stato islamico, ancora una volta, sarà in grado di riorganizzarsi e di proseguire la sua missione fanatica di distruzione.

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