Le proteste scoppiate in Kazakistan a causa dell’aumento del costo del carburante hanno colto di sorpresa molti analisti e osservatori, trattandosi di un paese che per decenni non ha vissuto sommosse ed è stato placidamente governato dalla dittatura di Nursultan Nazarbayev.

Fino al 2019, quando dopo quasi trent’anni in carica, ha lasciato il potere all’attuale presidente, Qasym-Jomart Toqaev. Nazarbayev ha scelto una figura esterna alla sua famiglia per non dare l’impressione di nepotismo, ma ha mantenuto suoi parenti in posti chiave dell’amministrazione e si è ritagliato il ruolo onorifico di presidente del Consiglio di sicurezza nazionale.

Con il titolo di elbasy, leader della nazione, ha continuato a vegliare sulle scelte strategiche del governo e gli sono state dedicate statue, piazze e persino la capitale, che nel 2019 ha cambiato nome da Astana a Nursultan, sultano di luce, in onore del padre della patria.

L’aiuto militare di Mosca

Copyright 2019 The Associated Press. All rights reserved

Toqaev, a differenza delle umili origini di Nazarbayev, proviene da una famiglia di intellettuali, ha studiato e lavorato come diplomatico in Cina prima di scalare i vertici della nomenklatura. Secondo alcuni osservatori, la sua esperienza pregressa ha fatto avvicinare il Kazakistan a Pechino, rispetto a un’equidistanza geopolitica coltivata per anni dal suo predecessore.

I rapporti economici e commerciali con la Cina sono comunque solidi, benché l’alleato politico-militare di riferimento resti la Russia. Il Kazakistan è tra i membri fondatori della Comunità degli stati Indipendenti, organizzazione nata dalle ceneri dell’Unione sovietica, che nel 1992 ha siglato la partecipazione alla Csto, l’organizzazione per la sicurezza collettiva sulla falsariga della Nato.

Questo patto militare ha sempre scontato una debolezza politica e decisionale, infatti le richieste di assistenza da parte di Kirghizistan e Armenia non sono state accolte negli anni delle rispettive crisi. Nel caso del Kazakistan, invece, la Csto ha risposto alla richiesta di aiuto di Toqaev, che si è dilungato in lodi e ringraziamenti a Mosca per l’invio di migliaia di soldati delle brigate d’élite, necessarie a tamponare le forze di sicurezza kazake demoralizzate e disorganizzate.

Le manifestazioni pacifiche, promosse da cittadini esasperati e impoveriti, sono state integrate da veterani dell’opposizione politica, oltre che da giovani disoccupati e marginalizzati delle periferie. Sono stati avvistati anche gruppi di criminali, tra cui Arman Dzhumageldiev, detto “Arman il selvaggio”, tra i principali gangster del paese, arringare la folla di Almaty con un megafono.

Il malavitoso aveva definito un codardo l’oligarca Mukhtar Ablyazov, che dall’esilio ha rivendicato la paternità della rivolta promettendo di tornare nel paese per liberarlo dal regime. Ablyazov è anche il marito di Alma Shalabayeva, espulsa dall’Italia nel 2013 su richiesta del Kazakistan che dava la caccia all’oppositore. Le forze di sicurezza hanno poi annunciato di aver arrestato Arman il selvaggio e cinque suoi affiliati in un’operazione di polizia.

Le purghe di Toqaev

Copyright 2019 The Associated Press. All rights reserved

Toqaev ha ordinato alle forze di sicurezza di sparare a vista per reprimere le proteste, video caricati sui canali Telegram e Twitter mostrano scene di guerriglia nelle principali città kazake con palazzi governativi dati alle fiamme, cecchini e sparatorie per le strade, auto bruciate e il coprifuoco con pattuglie militari.

Nelle prime fasi della protesta alcuni reparti dell’esercito e della polizia erano stati catturati e disarmati dai manifestanti, ma nel caos attuale non è nota la loro sorte. Un video mostra anche un gruppo di dissidenti caricare a cavallo la polizia in una località rurale.

Il regime ha preso il controllo di internet e oscurato siti indipendenti, lasciando spazio solo a quelli filogovernativi di propaganda. Toqaev ha anche licenziato una serie di dirigenti fedeli a Nazarbayev e preso il suo posto come capo del Consiglio di sicurezza.

Tra le vittime delle purghe c’è anche l’ex primo ministro ed ex capo dei servizi segreti Karim Masimov, arrestato per alto tradimento. Un cablogramma del dipartimento di Stato Usa fornisce un retroscena di spionaggio.

Quando Masimov era premier veniva attentamente monitorato dai diplomatici americani e dalla Cia, interessati a scoprire eventuali punti deboli. Perciò un dispaccio riservato riferisce del suo avvistamento in uno dei club più esclusivi di Astana nel 2008, in compagnia del capo dell’amministrazione presidenziale e del sindaco, Askar Mamin, che sarebbe diventato a sua volta premier nel 2019 per dimettersi durante le attuali proteste.

I diplomatici Usa hanno annotato l’abbondante consumo di alcol da parte dei tre in compagnia delle mogli, oltre al fatto che Masimov ha spinto il gruppo in pista da ballo. Il premier è salito perfino sul palco della discoteca, riferisce il cablogramma, per ballare da solo venti minuti.

Da qui sono sorti i sospetti di uso di stupefacenti, considerata intelligence utile per Washington. Toqaev non si fida di Masimov e di altri dirigenti dell’intelligence, accusati di aver permesso l’addestramento di rivoltosi sulle montagne, ma ha anche parlato di ingerenze straniere e complotti per rovesciare il suo governo.

Il rischio radicalizzazione islamista e terrorismo

Secondo un esperto di diritti umani kazako, esiste il rischio che le manifestazioni vengano infiltrate anche da frange islamiste radicali. La maggioranza della popolazione del Kazakistan (attorno al 70 per cento) è musulmana sunnita, ma in gran parte secolarizzata anche a causa del passato sovietico, oltre che della scuola moderata hanafita.

Nel 2018, tuttavia, il governo di Nazarbayev ha promosso una stretta sui comportamenti in pubblico, compreso il vestiario e l’educazione religiosa all’estero. La comunità salafita del paese si è sentita discriminata e minacciata dalle nuove regole.

Il radicalismo islamico e la violenza jihadista sono rari in Kazakistan, ma non sono mancati episodi di terrorismo. Nel 2011 un kamikaze si è fatto saltare in aria nella sede dei servizi di sicurezza ad Aktobe, al confine con la Russia.

Nella stessa città, nel 2016, un gruppo di terroristi hanno commesso una strage con 7 morti e decine di feriti, e sono stati accusati dal governo di essere foreign fighters tornati dalla Siria. Aktobe è considerata una roccaforte salafita con molti radicalizzati, ma anche nel sud del paese non sono mancate infiltrazioni del Movimento islamico dell’Uzbekistan, legato prima ad al Qaida e poi all’Isis. Negli anni d’oro dello Stato islamico, centinaia di kazaki si sono uniti al Califfato in Siria e Iraq, tra cui alcuni bambini ritratti nei video di esecuzioni di prigionieri.

I jihadisti kazaki hanno spesso fatto parte dei battaglioni di forze speciali dell’Isis, compiendo operazioni suicide e “inghimasi”, cioè di penetrazione dietro le linee nemiche con scarse possibilità di sopravvivere. Il governo di Astana ha rimpatriato quasi 700 foreign fighters e famiglie, processando i combattenti.

Rispetto ad altri paesi centroasiatici come Tajikistan e Uzbekistan, comunque, il Kazakistan è riuscito a limitare la proliferazione dell’estremismo islamista. Tuttavia, la strategia adottata da Toqaev sembra copiare molto quella di Bashar al Assad in Siria, all’inizio della guerra civile.

Per inquinare la protesta pacifica che rivendicava democrazia e libertà, il dittatore siriano ha fatto uscire dalle carceri centinaia di veterani jihadisti di al Qaida, che nel corso degli anni hanno preso il totale sopravvento sugli oppositori laici.

In questo modo il regime di Damasco ha avuto una giustificazione per reprimere con brutalità la rivolta, accusando tutta l’opposizione di terrorismo. Toqaev ha accusato ventimila manifestanti di essere terroristi, usando parole di inaudita violenza per giustificare la repressione.

Questo approccio può non soltanto radicalizzare giovani fino a ora spinti da motivazioni politiche o sociali, ma anche regalare la scena a gruppi marginali di islamisti e veterani jihadisti, che faranno proseliti e reclutamento come in Siria.

Toqaev ha anche saldato l’alleanza con la Cina e non bisogna dimenticare che nell’est del Kazakistan vivono comunità di uiguri che Pechino considera estremisti, anche loro potrebbero radicalizzarsi e unirsi a gruppi salafiti.

L’analogia con la Siria non finisce qui, perché entrambi i regimi hanno chiesto l’aiuto militare della Russia, stampella fondamentale per garantire la sopravvivenza del regime. Questo elemento potrebbe attrarre dall’estero volontari islamisti che, come in Siria e Afghanistan, sono arrivati per combattere le invasioni di “infedeli”, sovietici prima e russi poi, a fianco dei regimi considerati corrotti e apostati.

L’abbraccio con la Russia può regalare una vittoria tattica a Mosca, ma causare ulteriori problemi nel Caucaso e in Asia centrale, laddove gli islamisti mostrano solidarietà con i loro fratelli “oppressi”. Sarà utile osservare anche l’approccio dei Talebani, che facevano affidamento sulle repubbliche centro asiatiche come ponte nella comunità internazionale, ma che rischia di alienare le simpatie dei musulmani radicali.

© Riproduzione riservata