C’è chi, per sdrammatizzare, si attacca allo zodiaco: l’anno del drago, che inizierà il 10 febbraio, è tra i più propizi del calendario, dunque – scommettono i superstiziosi – sono senz’altro tantissimi i cinesi che hanno programmato di avere un figlio nel 2024. I demografi invece devono fare i conti con la realtà riassunta nelle statistiche, che descrivono un declino apparentemente inarrestabile.

«La popolazione persa l’anno scorso equivale allo stato del New Mexico», ha fatto notare Yi Fuxian. Nel 2023 infatti i cinesi sono diminuiti, da 1,4118 miliardi del 2022 a 1,4097 miliardi (-2,08 milioni). Il secondo calo consecutivo – che nel 2023, in base alle stime delle Nazioni unite, ha consentito il sorpasso dell’India – è stato accompagnato da nuovi, preoccupanti record negativi.

Anzitutto quello delle nascite: soltanto 9,02 milioni (-5,6 per cento), che corrisponde al tasso di natalità più basso dal 1949, dalla proclamazione della Repubblica popolare cinese, ovvero 6,39 parti ogni 1.000 abitanti. Inoltre – rileva il rapporto appena pubblicato dall’Ufficio nazionale di statistica (Nbs) – nel 2023 le morti sono state 11.1 milioni (690.000 in più rispetto al 2022), 7,87 ogni 1.000 abitanti, un tasso di mortalità mai così elevato dal 1969 (8,06), in piena Rivoluzione culturale.
A quest’ultimo triste primato ha contribuito la repentina rimozione delle restrizioni anti-Covid alla fine del 2022, con conseguente impennata dei decessi tra gli anziani, che tuttavia le autorità non hanno contabilizzato come morti da SARS-CoV2.

Il combinato disposto tra calo delle nascite e aumento dell’aspettativa di vita (77,47 anni) significa invecchiamento: già 300 milioni di cinesi (il 21,1 per cento del totale) hanno 60 anni o più. L’Accademia cinese delle scienze sociali aveva previsto che avrebbero raggiunto “il 20 per cento circa” entro la fine del 2025.

Relazioni fluide

Il fatto è che il tasso di fertilità (il numero medio di figli per donna in età feconda) del gigante asiatico è precipitato a una velocità inedita. Ci sono voluti solo 20 anni perché scendesse da 5,5 a 2,1, rispetto ai 30 anni di media dei paesi dell’Asia orientale e ai 58 anni che sono passati per vedere passare quello medio globale da 5 all’attuale 2,3. Un tasso di fertilità pari a 2,1 viene definito tasso di “sostituzione”, ovvero quello che garantisce in condizioni normali la stabilità del numero di abitanti.

Dopo che il partito comunista ha legalizzato il secondo nel 2016 e il terzo nel 2021, nel 2023 il numero di neonati è calato per il settimo anno consecutivo. Secondo i sociologi, a determinare questa tendenza contribuiscono diversi fattori. Anzitutto la società è cambiata profondamente. Nel 2022 era single oltre il 51 per cento dei cinesi tra i 25 e i 29 anni. L’individualismo da un lato e, dall’altro, una maggiore accettazione della diversità hanno favorito relazioni fluide, non esattamente conformi all’ordine della famiglia confuciana.

Inoltre la politica voluta da Deng Xiaoping – in vigore dal 1980 al 2015 – ha in un certo senso “abituato” al figlio unico, e ha reso estremamente difficile invertire la rotta. Nello stesso tempo l’aumento del costo della vita in conseguenza delle riforme di mercato e, in particolare, delle spese necessarie per crescere i figli, impedisce a molti di creare famiglie più numerose, a dispetto della rimozione dei divieti e degli incentivi varati dai governi locali.

Il paese rischia di invecchiare prima di diventare ricco. I media di stato sono arrivati ad ammonire che «nessun membro del partito deve usare alcuna scusa, oggettiva o personale, per non sposarsi o avere figli, né per avere solo uno o due figli». Mentre diversi policymaker sostengono che l’unico rimedio efficace sarebbe l’investimento da parte del governo in sostanziosi sussidi mensili per ogni figlio, fino al compimento della maggiore età.

Chi spende?

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Come che sia, intanto c’è da fronteggiare l’impatto della crisi demografica sul sistema economico. L’invecchiamento della popolazione rischia di ridurre quei consumi che le politiche del partito stanno promuovendo in ogni modo, con i sussidi per l’acquisto delle auto elettriche (una Tesla in Cina cosa al momento quasi la metà che in Europa) come con le campagne consumistiche associate alla giornata dei single (il 1° novembre, 1/11), a San Valentino, al Capodanno cinese, e via spendendo.

Nel 2023 – primo anno di riapertura post-pandemica – i consumi hanno fatto registrare un’ottima performance, aumentando del 43,1 per cento rispetto al 2022 e arrivando a costituire l’82,5 per cento della crescita (5,2 per cento) del prodotto interno lordo.

Un dato in linea con l’obiettivo di orientare la crescita sui consumi interni, emancipandola dai suoi motori tradizionali, gli investimenti e le esportazioni, raggiunto grazie a un’impennata dei consumi “di qualità”, tra i quali vengono annoverati i viaggi culturali e le automobili elettriche. Quello del 2023 è però un “rimbalzo” e se i giovani continueranno a diminuire, ci saranno meno consumatori disposti a spendere.

L’invecchiamento è come una corrente contraria alle politiche del partito comunista secondo cui lo sviluppo del paese deve rimanere incentrato sulla manifattura, ma dipendere meno dalle esportazioni e sempre di più sul mercato interno.

Il cosiddetto “dividendo demografico” (il rapporto tra gli abitanti in età da lavoro e quelli non autosufficienti) è stato la forza che ha trainato lo sviluppo del paese negli ultimi decenni, quando una abbondante forza lavoro ha permesso di tenere bassi i salari. Ebbene lo studio del Nbs evidenzia che anche questo fattore si sta assottigliando.

La forza lavoro (16-59 anni), che era pari al 58 per cento della popolazione nel 1979 – all’inizio della stagione di “riforma e apertura” – e che aveva raggiunto l’apice nel 2010, quando ammontava al 74 per cento della popolazione, l’anno scorso era pari al 61,3 per cento dei cinesi (circa 865 milioni di persone). La riduzione del dividendo demografico sta provocando un aumento dei salari e carenza di manodopera in diversi settori.

Economia di scala

Per far fronte a questa nuova realtà il piano “Made in China 2025”, varato dal governo nel 2015, prevede il ricorso massiccio all’automazione, sul modello della “Industrie 4.0” tedesca. Secondo le ultime statistiche della International Federation of Robotics (Ifr), nel 2022 la metà dei robot del mondo intero è stata installata in Cina, che ha raggiunto il quinto posto per densità di robot industriali (392 ogni 10.000 lavoratori) dopo Corea del Sud, Singapore, Germania e Giappone.
La Corea del Sud rappresenta un modello: con un tasso di fertilità pari a 1,075 nel 2023, inferiore rispetto alla Cina (1,705), gli automi – che hanno raggiunto una densità di 1.012 ogni 10.000 operai – stanno dando un contributo determinante alla fiorente industria locale, a partire da quella dell’automotive.

Le macchine in mostra all’ultima World Robot Conference di Pechino possono non solo svolgere mansioni ripetitive in fabbrica o complicati interventi chirurgici guidati da medici, ma sono in grado di preparare e servire pasti nei fast food, oppure di raccogliere frutta e ortaggi nei campi meglio e più rapidamente dei braccianti. L’embargo hi-tech statunitense nei confronti di Pechino non dovrebbe danneggiare lo sviluppo del settore, perché per fabbricare queste macchine bastano i processori a 28 nanometri, che la Cina fabbrica e acquista senza limitazioni.

Inoltre la Cina offre la cosiddetta “economia di scala” che – proprio come per le auto elettriche – potrà permettere l’abbattimento dei costi di produzione di umanoidi come “Optimus” a cui sta lavorando Tesla. In Cina Xiaomi, Fourier Intelligence e altre compagnie stanno seguendo lo stesso percorso, quello che dovrebbe portare a umanoidi intelligenti, alimentati dai “large language models” utilizzati per l’Ia. È anche con questa innovazione che si punta a fronteggiare l’invecchiamento della popolazione.

Insomma dal “dividendo demografico” al “dividendo robotico” la strada, forse, non sarà lunga.

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