Kelbinur Sidik è una donna uzbeka, nata e cresciuta nella regione autonoma cinese dello Xinjiang, un nome che i suoi abitanti ritengono offensivo e imposto da Pechino. Per questo preferiscono chiamarlo Uiguristan o Turkestan orientale. Sidik ha studiato in un istituto cinese e una volta completati gli studi diventa una professoressa di lingua. La sua carriera durerà più di 28 anni, un periodo di tempo in cui ha assistito a scene che di sicuro un professore non dovrebbe mai vedere nel suo lavoro. Sidik è stata inviata in quello che lei stessa definisce «concentration camp» per impartire lezioni di lingua cinese ai detenuti. Il governo centrale di Pechino li chiama invece «centri di rieducazione», un luogo in cui si imparano skills di lavoro e viene insegnata la lingua e cultura cinese a chi entra in questi cerchi dell’inferno.

La realtà, come denunciato da tante organizzazioni umanitarie e anche dal parlamento europeo, è che sono dei veri e propri centri detentivi in cui il governo centrale rinchiude la minoranza uigura turcofona e musulmana. Per mettere a tacere ciò che hanno visto gli occhi di Sidik, le guardie cinesi hanno minacciato lei e la sua famiglia. Ciò che ha vissuto come testimone doveva rimanere assolutamente segreto.

La testimone

«I prigionieri del primo campo in cui sono stata inviata erano per la maggioranza uomini, c’erano solo sette donne. Molti di loro erano figure religiose, tutti accusati di aver predicato la loro religione nelle moschee» dice Sidik davanti agli avvocati. Un team di difensori sta raccogliendo la sua testimonianza insieme ad altre migliaia per convincere il procuratore della Corte penale internazionale ad aprire un’indagine contro la Cina.

«Nei primi venti giorni c’erano dieci persone per cella, con il passare delle settimane sono diventate 50 e poi 60». Tutte stipate in pochi metri quadri. I prigionieri appartenevano a classi e lavori diversi: intellettuali, giovani, artisti, musicisti, scrittori e imprenditori. Dormivano tutti per terra, non c’era niente a dividere il loro corpo dal freddo pavimento. A coprirli un leggero lenzuolo. Avevano mani ammanettate e piedi uniti con le catene. Un triste ricordo lasciato dallo schiavismo. C’erano regole anche per andare in bagno, massimo tre volte al giorno e con a disposizione un minuto per lavarsi le mani e il viso. Non c’erano docce e la scarsa igiene ha diffuso varie malattie tra chi era rinchiuso in quei campi.

La repressione cinese tocca ogni singolo punto, l’obiettivo è annientare psicologicamente e fisicamente chiunque varchi la soglia del centro di detenzione. Per il governo centrale è l’unico modo per sedare sul nascere ogni istanza indipendentista della regione. In un ambiente del genere anche il cibo è disgustoso: soltanto un piccolo panino al vapore e del riso annacquato da mangiare. «Ogni lunedì ricevevano delle iniezioni di non si sa cosa, gli prelevavano il sangue e dovevano ingerire una piccola pillola bianca» spiega Sidik. Secondo il parlamento europeo la Cina sta portando avanti una campagna di “sterilizzazione” tra gli uiguri, con l’obiettivo di limitare le nascite. I giorni erano scanditi da continui lavaggi del cervello. «A metà giornata, verso pranzo, si sentivano urla terrificanti dal piano di sotto».

Sidik ricorda che due prigionieri «volevano imparare il cinese il più in fretta possibile, pensavano che sarebbero stati liberati» e invece li ha attesi la morte. Uno di loro è deceduto per un’infezione urinaria cronica, per l’altro, la scusa utilizzata dalle guardie è stata la pressione alta.

Il prigioniero

Dentro quei centri di detenzione ci è finito anche Omer Bekali, non come insegnante ma come detenuto. È nato nella contea di Pichan (o Shanshan) nel 1976 e appartiene alla minoranza uigura. «Per via della discriminazione razziale, la disoccupazione e le disuguaglianze sono stato costretto ad andare in Kazakhstan» racconta anche lui davanti agli avvocati. Ha iniziato una vita da zero, nel 2014 ha un nuovo lavoro e tre figli. Nel marzo del 2017 ritorna in Cina, nella città di Urumqi nel nord-ovest dello Xinjiang, per una visita di lavoro. Visto che era di passaggio decide di tornare nella sua città natale per fare visita ai suoi genitori. Qui è stato arrestato e rinchiuso in un centro di rieducazione per otto mesi, accompagnato da catene pesanti sette chili che legavano insieme mani e piedi. «In realtà è un brutale campo di concentramento». Lì dentro «sono stato torturato, ho sofferto la fame e altri abusi terrificanti, ma cosa più importante ho assistito a trattamenti disumani nei confronti di altre persone» racconta.

«Sono tutti concentrati sul Covid-19 e innumerevoli persone sono state lasciate morire nel Turkestan orientale. Mio padre è stato ucciso in un campo di concentramento, mio fratello è stato torturato talmente tanto che non è più un uomo normale. Di otto persone che siamo in famiglia, sei di noi sono stati internati e hanno subito un’oppressione brutale».

Nonostante la repressione e la paura non smetterà di denunciare i crimini a cui ha: «Chiediamo alla comunità internazionale e alla corte penale internazionale di liberare e garantire giustizia agli uiguri, ai kazaki e ad altre persone nel Turkestan orientale».

Il suo appello è rivolto anche contro le Nazioni unite e il Consiglio europeo «che non hanno intrapreso azioni reali oltre a lanciare avvertimenti e condanne». Tuttavia, negli ultimi mesi qualcosa si inizia a muovere. A dicembre 2020 il parlamento europeo ha approvato un testo unico di condanna, denunciando le violazioni dei diritti umani e affermando che oltre un milione di persone sono rinchiuse in questi centri. A marzo l’Unione europea ha imposto sanzioni contro funzionari cinesi per le violazioni dei diritti umani che accadono nello Xinjiang, provocando l’ira di Pechino che ha sanzionato dieci eurodeputati e quattro entità. Un botta e risposta che ha alimentato tensioni tra la Cina e gli altri stati europei. Recentemente il parlamento canadese ha approvato una mozione non vincolante che condanna il comportamento della Cina nei confronti della sua minoranza musulmana, definendolo come un «genocidio» e ha chiesto di spostare le olimpiadi invernali del 2022 che da programma si terranno a Pechino.

«Nonostante ora sia un cittadino del Kazakistan, non sono ancora riuscito a vivere come un normale essere umano. La morte di una persona negli Stati Uniti scuote il mondo intero, ma nel Turkestan orientale migliaia di giovani innocenti uiguri e kazaki vengono incatenati, incappucciati con sacchi neri sulla testa e trasferiti nelle province cinesi, e i loro organi vengono raccolti e venduti come "organi halal". Nonostante le prove che espongono questo oscuro commercio, molti paesi hanno messo i loro interessi economici al primo posto chiudendo gli occhi e la Cina ne sta approfittando».

Il tentativo alla Corte

Rodney Dixon è un difensore dei diritti umani. È stato istruito direttamente dal governo del Turkestan orientale in esilio che ha base negli Stati Uniti e ha ministri residenti in vari paesi, tra cui Svizzera, Giappone e Canada. Oggi raccoglie testimonianze come quelle di Sidik e Bekali per convincere il procuratore della Corte penale internazionale ad aprire un’indagine sull’operato di Pechino. Il nodo più difficile da sciogliere è quello legato alla giurisdizione. «La difficoltà del caso è che la Cina non fa parte della Corte penale internazionale, tuttavia quando un’azione illecita inizia fuori dal territorio cinese ma in un paese che fa parte del trattato della corte e continua verso la Cina, allora c’è giurisdizione. Ed è questo che vogliamo provare». Quello che accade è che «i cittadini uiguri vengono rapiti in paesi come il Tagikistan e la Cambogia e vengono mandati in Cina». Essendo stati all’interno dello statuto della Corte penale internazionale le testimonianze degli uiguri sono necessarie. «Alla fine dello scorso anno ci ha chiesto ulteriori prove e adesso le stiamo raccogliendo» dice Dixon. «Se il procuratore decide di aprire un’inchiesta potrà avere i poteri per emanare mandati di arresto» spiega.

Nei prossimi mesi Dixon e il suo team faranno un altro tentativo, chissà forse finalmente si arriva alla fine di quello che molti definiscono un «genocidio culturale» a danno di milioni di cittadini.

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