Mentre cancellerie e media rivolgono l’attenzione alla trattativa “tregua in cambio degli ostaggi”, a Gerusalemme una manifestazione dell’estrema destra messianica che invoca la colonizzazione di Gaza e della Samaria del nord, offre un significativo spaccato degli equilibri politici interni israeliani.

Il meeting si è svolto sotto le insegne di Nahala, fondata nel 2005 da due storici leader del movimento dei coloni, lo scomparso Moshe Levinger e la sua antica compagna di militanza Daniela Weiss, poi alla guida dell’organizzazione. Entrambi erano già stati animatori del Gush Emunim, il Blocco della fede, al quale, a partire dagli anni Settanta, è legata la grande parte della nascita degli insediamenti in Cisgiordania e Gaza. Levinger era stato addirittura il pioniere della colonizzazione, insediandosi a Hebron, sede della Tomba dei Patriarchi, già nella Pasqua del 1968. Aprendo, così, quel processo di ritorno alla biblica Terra di Israele che, secondo le credenze del sionismo religioso, ispirato prima dalle posizioni di Rav Abraham Isaac Kook, poi dall’attivistica teologia politica del figlio Tzvi Yehuda, avrebbe scandito il ritorno nei luoghi della memoria religiosa situati fuori dai confini internazionalmente riconosciuti di Israele. Di Tzvi Yehuda Kook, guida della yeshivah, la scuola religiosa, di Merkaz Ha Rav, e leader spirituale di riferimento di Levinger e dei fautori del messianico ritorno a Eretz Israel capace di accelerare la Redenzione , resta impressa l’immagine del 7 giugno 1967 mentre, circondato da gruppi di paracadutisti che ne avevano invocato la presenza al ritrovato Muro del Pianto, arringa i soldati in preghiera affermando che gli ebrei erano tornati nel luogo più santo e non se ne sarebbero andati mai più.

A Gerusalemme Nahala ha riunito quanti continuano a reclamare non solo il proseguimento della colonizzazione in Samaria ma anche il ritorno a Gaza, abbandonata nel 2005 dopo la decisione di Sharon di ritirarsi unilateralmente. Posizioni note ma non per questo meno problematiche per il futuro della Striscia, al quale guardano sia l’amministrazione Biden, sia i paesi mediorientali, dall’Egitto agli stati del Golfo, che dovrebbero fungere da pilastri a un eventuale accordo in materia. Se non altro perché, a dispetto della posizione ufficiale di Netanyahu, che esige per Israele il controllo della sicurezza dell’area per un periodo tanto indefinito quanto lungo ma non il ritorno dei coloni, al meeting indetto da Nahala erano presenti ben 12 ministri del Likud, oltre che quelli di Potere ebraico e del Partito sionista religioso, rappresentati da Ben Gvir e Smotrich. L’incontro puntava a mantener fermo Bibi, sottoposto a crescenti pressioni Usa, sulla guerra lunga – se il conflitto con Hamas dovesse finire senza risultati politici e militari tangibili, affermano i due leader, il loro sostegno all’esecutivo verrebbe meno e si andrebbe alle elezioni – declinando le parole d’ordine attivistiche messianiche in una piattaforma sulla quale convergere con il Likud: da qui lo slogan “La colonizzazione porta sicurezza”.

Deportazione

Parole e toni del meeting sono state eloquenti. Smotrich ha, estaticamente, descritto le emozioni dei soldati evacuati da Gaza ancora bambini e ora tornati là in armi, affermando che solo la loro presenza nell’area può garantire la sicurezza di Israele. Quanto a Ben Gvir ha ribadito che se non si vuole un nuovo 7 ottobre occorre «tornare a casa e controllare il territorio»: incoraggiando l’emigrazione e introducendo la pena di morte per i reati di terrorismo. In un contesto politico e simbolico cui il lessico è tutto, il leader di Potere ebraico e ministro della Sicurezza, ha chiamato Gaza, non a caso, Gush Katif: il nome dell’agglomerato di insediamenti nella Striscia che contava circa ottomila coloni.

La discussione sul futuro di Gaza resta aperta non solo nell’esecutivo ma anche nel Likud. Come conferma la massiccia presenza di ministri del partito del premier, non certo una delegazione di cortesia: tanto più che Nahala è nel mirino della comunità internazionale per il sostegno all’azione violenta dei coloni in Cisgiordania. Il ministro delle Comunicazioni e leader dell’ala di estrema destra del Likud, Shlomo Kahri, ha sostenuto – nonostante Netanyahu smentisca che questa sia la posizione ufficiale del governo – non solo la proposta di ricostruire gli insediamenti ma anche quella di “incoraggiare” l’emigrazione volontaria dei palestinesi dalla Striscia. Posizione conforme con lo striscione che in sala inneggiava: «Solo il trasferimento può garantire la pace». Obiettivo che Kahri ha declinato all’insegna del principio religioso «costringilo finché dirà “farò così”».

Una pressione interna , quella dei fautori della soluzione “trasferimento più colonie” che se fosse recepita condurrebbe Israele alla rottura totale con gli Stati Uniti. Tanto che Netanyahu ha insistito nel ripetere che il destino di Gaza è prerogativa del gabinetto di guerra, dal quale sono esclusi i leader attivisti messianici. Ma alla Knesset votano i partiti e non l’organismo che vede anche la partecipazione del centrista Benny Gantz, potenziale successore di Bibi nel caso le cose precipitassero sul quale punta la Casa Bianca. La destra estrema che rappresenta i coloni rimane, dunque, decisiva negli equilibri politici israeliani e costituisce un ingombrante ostacolo sia per lo sviluppo di un eventuale accordo tattico con Hamas , finalizzato allo scambio politico ostaggi-tregua, sia sull’ancora più complicato dopo guerra a Gaza. Anche per ché i messianici nazionalreligiosi non si fanno condizionare dall’istante: guardano al lungo periodo, cosa che Bibi non può fare. La loro stella è quella della Redenzione e all’accelerazione del suo avvento piegano ogni altra considerazione politica.

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