Troppo spesso relegato alle tesi antisistema, il vittimismo appare piuttosto come un tratto essenziale del nostro tempo. Si ripresenta invariato in ogni dibattito. Dalla crisi economica, alle tesi sui migranti, alla pandemia, al conflitto in Ucraina è la maschera sotto la quale si tenta di far passare opinioni volte a radicalizzare le estreme e a destabilizzare il tessuto sociale in vista di acquisire consenso per più o meno definiti obiettivi politici. Il sistema è ormai collaudato e sfrutta quel serbatoio di emotività che sono i social network. Veicoli di emozioni non di informazioni, come ci insegna chi li studia dal loro sorgere. In un conflitto così ideologizzato come quello israelo-palestinese il copione si presenta moltiplicato per dieci.

Ovvio, come argomentato da Guido Rampoldi su queste pagine, che la stessa denuncia del vittimismo possa tramutarsi in un meccanismo censorio, il che ci impone di porre un limite chiaro che distingua i due piani. Per essere chiari: ogni critica ai governi israeliani non è solo lecita, ma anche doverosa. Non si capisce perché Israele debba godere di uno statuto speciale rispetto agli altri paesi. Tra l’altro si scadrebbe nel ridicolo, finendo col dare degli antisemiti alle centinaia di migliaia di israeliani che hanno invaso le strade di Gerusalemme, Haifa, Tel Aviv nei lunghi mesi precedenti al conflitto e proseguiti anche in questi tragiche settimane.

Va bene che in ambito ebraico la categoria dell’odio di sé è assai abusata, ma spingersi fino a definire odiatori di ebrei metà degli israeliani appare un pochino troppo. Ancora, si può criticare il sionismo come esperienza storica? Certamente sì. In Israele è nato un intero filone storiografico, definito dei Nuovi storici, che ha acceso i riflettori sui punti oscuri, sulle aggressioni indiscriminate (per fortuna circoscritte), sulle ideologie estremiste (per fortuna assai minoritarie) dei pionieri dello stato. Atrocità, del resto, si ritrovano nella storia di ogni movimento nazionale, che spesso reagisce a secoli di soprusi e persecuzioni. Almeno, credo gliene si debba dare atto, l’intellettualità israeliana ha dimostrato capacità tale da non sopprimere la coscienza critica, spesso seppellita sotto una montagna di retorica patriottica.

Si può impedire agli ebrei il diritto alla propria aspirazione nazionale? Ogni opinione è lecita, non tutte sono valide. Bisogna essere coscienti che dichiararsi contrari all’idea di uno stato ebraico significa ribadire, sotto mentite spoglie, l’antico schema antigiudaico europeo che chiede agli ebrei di liberarsi dei propri simboli identitari. Visto che si avvicina la festività di Hanukkà, credo sia importante ricordare che si celebra proprio la resistenza al tentativo di assimilazione ellenico. Come tutti gli altri, palestinesi in primis, gli ebrei hanno diritto ad un territorio fondato su una pratica sociale (inno, bandiera, calendario, lingua, scuola) aderente alla propria tradizione. Una/o bambina/o ebrea/o hanno diritto a crescere in un immaginario ebraico.

Non è questione di fede, ma di diritto all’autodeterminazione. Nulla impedisce che questa impostazione culturale garantisca a tutti i cittadini le libertà individuali, così come a me, ebreo cresciuto in un Paese cattolico, sono state garantite le libertà degli altri. Ora, sappiamo bene che la critica ad Israele in quanto Stato ebraico, a prescindere da politiche o governi, sia cosa assai delicata. Pensiero che spesso non si dice, ma che traspare da precisi impianti retorici.

Lo Stato binazionale, citare l’intellettuale ebrea/o, mosca bianca in oceano di opinioni contrarie, che usa termini e argomenti affini alla propaganda antisionista (versione accademica del «ho tanti amici ebrei»), prendere passi della Torah estrapolandoli totalmente dall’unità di significato a cui rinvia il testo biblico per dimostrare la «perfidia giudaica» (cosa fatta recentemente dal Cardinale Ravasi e insulsa propaganda utilizzata anche nei confronti del Corano in questi anni di dilagante islamofobia) sono tutti segni, magari inconsapevoli, di insofferenza verso l’idea stessa di stato ebraico.

Lo stesso vale per l’assurda idea del senso di colpa europeo alla base della (evidentemente ingiusta) concessione agli ebrei ad avere una propria terra. Guido Rampoldi ha parlato di viltà. Accanto a quella che lui descrive, io aggiungerei quella tipica di chi (e certo non mi riferisco a lui) tira il sasso e poi ritrae la mano.

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