Sui media globali appaiono immagini di soldati israeliani che si ritraggono sui social vantandosi delle loro azioni a Gaza. Dopo gli atroci video messi in rete dai terroristi di Hamas il 7 ottobre, si giunge ora all’esaltazione della vendetta.

È sempre così: la guerra abbrutisce tutti: chi crede di lottare per la resistenza e anche chi pensa di essere migliore e nel giusto. In ogni conflitto abbiamo visto di queste scene ritratte dai combattenti stessi senza vergogna: è accaduto pure nel caso di peacekeepers o di caschi blu.

Imbracciare le armi, qualunque ne sia il motivo, conduce inesorabilmente verso l’imbarbarimento. Viene perduto il senso del limite e ogni forma di pietas (‘pietà l’è morta’ cantavano i nostri alpini nella prima guerra mondiale, nella seconda e poi nella resistenza).

Nel caso di Gaza Hamas sta tentando di trascinare tutti verso il suo livello ma Israele deve resistere a tale tentazione. Non è sufficiente pubblicizzare le immagini atroci messe online dai terroristi per pareggiare i conti. La guerra degenera anche il più giusto tra gli uomini, trasformandolo in “un’animale umano”, per usare le parole di un generale israeliano.

Tutti subiscono la degradazione, a Gaza come in Ucraina, nessuno escluso. Il fatto di “aver ragione” non giustifica né autorizza ad usare violenza contro civili indifesi, come abbiamo visto fare nella “strage degli aiuti” e episodi simili.

Tutti hanno perso la ragione

È facile capire cosa sia accaduto: nella calca provocata dalla fame e dal crollo di ogni ordine civile, tutti hanno perso la ragione. Certamente c’è chi è morto calpestato e chi colpito da proiettili. D’altronde con le attuali norme d’ingaggio i soldati israeliani hanno ucciso anche alcuni dei loro ostaggi.

A Gaza l’odio e il pericolo sono onnipresenti e rendono tutti disperati e pazzi: non ci sono più regole se non quelle della pura sopravvivenza.

Oltretutto Hamas vi aggiunge la subdola tecnica del ricatto sugli ostaggi cercando di provocare reazioni inconsulte. Tuttavia se un esercito occupa un’area in guerra, ne prende anche la responsabilità: soprattutto quella della popolazione civile.

Purtroppo osserviamo anche ministri di Israele straparlare considerando a Gaza tutti colpevoli e giudicando la distinzione tra innocenti e colpevoli troppo labile e incerta. Stiamo forse sull’orlo della pulizia etnica generalizzata?

A tale quesito non sanno rispondere nemmeno i governanti di Gerusalemme: la loro guerra è senza prospettive e senza politica. Si tratta di una guerra d’istinto e d’impulso, sostenuta dall’eccitazione sciagurata della politica suprematista dei partiti estremisti e millenaristi, i quali hanno preso in ostaggio il sionismo, il Likud e Israele tutta.

L’illusione di costoro è che si possa risolvere definitivamente il problema palestinese eliminando i palestinesi stessi. Ma come farlo? Nessuno lo dice. In realtà alla fine si dovrà tornare a discutere del futuro e dell’opzione dei due stati che oggi sembra sfuggente. I palestinesi –spinti da Usa, Russia e Arabia Saudita (per una volta d’accordo)- stanno costituendo il loro governo nuovo.

Per chi lamenta in Europa la poca incisività americana su Israele (e i veti all’Onu), la risposta è ovvia: inutile fare pressione su Benjamin Netanyahu finché dall’altra parte non esiste un soggetto politico legittimo e riconosciuto dai palestinesi stessi. Vano prepararsi al negoziato se dall’altro lato non c’è nessuno a sedersi.

Si può certo accusare l’estrema destra israeliana di aver impedito da anni tale presenza ma adesso non si può fare a meno di (ri)costruirla. La difficoltà risiede nel fatto che i palestinesi sono molti divisi e che Hamas pare l’unica forza di un certo peso.

Tuttavia, dopo il 7 ottobre quest’ultima non è più accettabile come interlocutore (mentre prima lo era per il governo israeliano!). Inoltre non sarà comunque possibile imporre qualcuno: questa volta i palestinesi faranno obbligatoriamente da soli per non lasciar spazio ai terroristi e per riuscire a farsi ascoltare da tutti.

Da più parti si dice che sia necessaria una figura autorevole e riconosciuta come Marwan Barghouti. In ogni caso potrebbe non bastare perché tutte le tendenze devono vedersi riconosciute.

La scelta del nuovo premier Mohammed Mustapha corrisponde alla ricerca di “tecnici” che vadano bene a tutti ma contiene il rischio di un esecutivo debole, inservibile per la trattativa a venire.

C’è inoltre un quadro di competitività internazionale: Mosca cerca di avvalorare la sua narrazione sul doppio standard occidentale: un occidente che sostiene i diritti dell’Ucraina ma non quelli della Palestina.

Quella russa è una posizione paradossale considerando che Israele non applica le sanzioni contro Mosca e rifornisce di tecnologia militare entrambe le parti. Ma tant’è, nel mondo contraddittorio della post-globalizzazione.

I timori di un’ondata antisemita

Si deve ammettere che il doppio registro occidentale risiede nella difficoltà dei governi a trattare la questione: mentre l’opinione pubblica è simpatizzante per i palestinesi (o almeno è molto preoccupata per ciò che accade a Gaza), gli esecutivi si tengono vicini a Israele per timore che dilaghi una nuova ondata di antisemitismo contro le comunità ebraiche europee o americana.

Ciò che accade nelle università Usa è un segnale di allarme. Tuttavia nessuno vuole una guerra di religione o tra culture, che i radicali delle due parti manipolerebbero di sicuro.

Ogni giorno ci si chiede quale sarà il punto limite delle azioni del governo Netanyahu che nemmeno gli americani potranno sopportare.

A Gaza si consuma un conflitto che non ha più senso: non darà più sicurezza a Israele né uno stato ai palestinesi. Serve solo a entrambi gli estremismi per giustificare la propria persistenza. Malgrado tutto la trattativa certamente dovrà esserci, e si potrà ricominciare a parlare da posizioni più ragionevoli e pragmatiche. 

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