In Banlieue 13, un film di Patrick Alessandrin del 2009, si immagina che per contrastare le gang che dominano un quartiere degradato di Parigi si lasci mano libera alla polizia, che viene a capo del problema imponendo un controllo tirannico. La storia è raccontata in chiave distopica, ma vi si intrecciano più fili di realtà concreta. Nei catastrofici disordini che scuotono la Francia da giorni a seguito della morte del giovane Nahel per mano di un poliziotto quegli stessi fili tornano a intrecciarsi, radicati più o meno in profondità nella storia e nella cultura di quel paese.

Il primo filo è la condizione delle banlieues e dei “territori perduti della Repubblica” (titolo di un libro di qualche anno fa): i giovani delle ultime generazioni, eludendo la scolarità, influenzati da diffuse dottrine radicali, rifiutati come diversi in vari contesti, sono un’illustrazione vivente di quella che negli Quaranta del secolo scorso fu chiamata “Legge di Hansen”, dal nome di Marcus L. Hansen, uno dei primi sociologi statunitensi dell’immigrazione: «Quel che il figlio vuol dimenticare, il nipote vuole ricordarlo».

La Legge di Hansen fu rispolverata dinanzi ai risultati di un’indagine del 2017, che rivelò che gli studenti islamici di lycée, immigrati di terza generazione, invece che avvicinarsi al modello culturale francese, preferivano ritrovare le posizioni più retrive e provocatorie dell’islamismo conservatore: l’omofobia, l’obbligo del velo anche per le ragazze, l’idea che la conversione a un’altra religione vada punita con la morte e che per difendersi sia normale usare la violenza. Dall’altro lato, la cultura di queste generazioni, benché discriminate, trova supporto nella cultura del politicamente corretto.

Un rapporto redatto nel 2014 per il ministero dell’Educazione nazionale (il rapporto Obin) aveva segnalato che nelle scuole alcuni temi erano diventati haram: era impossibile parlare di Shoah, di Madame Bovary (immorale, essendo la storia di un’adultera) o del Tartufo di Molière (mette in scena l’ipocrisia religiosa). Questo singolare clima di avversione e insieme di copertura ha effetti materiali profondi: se in certe aree delle città i giovani di origine immigrata sono tenuti a distanza, diversi loro quartieri sono impenetrabili gli estranei.

Le forze dell’ordine

Al grave disagio dei giovani delle banlieues si somma però il forte disagio connesso ai corpi di polizia. Questo è il secondo filo: l’atteggiamento delle forze dell’ordine, costituite in Francia da cinque o sei corpi.

Sebbene la polizia sia una delle istituzioni in cui i francesi hanno maggior fiducia, negli ultimi anni gli agenti si sono trovati implicati in incidenti troppo numerosi perché si possa parlare di caso. Alle vittime di un uso disinvolto delle armi, vanno sommati i casi in cui a perdere la vita sono i poliziotti, aggrediti in coda a manifestazioni di diversa natura. Le forze dell’ordine sono quindi diventate un problema nazionale pesante, al punto da suscitare (caso raro) una sociologia della polizia, il cui più attivo esponente è Fabien Jobard. Autore di ricerche come Sociologie de la police (2015, con Jacques de Maillard) e Politiques du désordre (2020, con Olivier Fillieule), Jobard ha richiamato l’attenzione su alcuni dati di fatto: la polizia si è gradualmente avvicinata al Rassemblement national (il partito di Marine Le Pen) e, per la pressione dei suoi potenti sindacati, ha molto esteso la propria libertà di azione.

Nel 2017, a seguito di un’ondata di gravi disordini, presidente il socialista François Hollande, una legge ampliò notevolmente le regole d’ingaggio. Gli effetti si videro subito: nella prima metà del 2017 il numero dei colpi sparati contro veicoli in movimento aumentò del 50 per cento rispetto alla prima metà dell’anno precedente.

La polizia avrebbe usato senza risparmio anche nuove armi come gli Lbd, che sparano pallottole “subletali” (è il termine tecnico). Durante la crisi dei gilet gialli (2018-2019), ha calcolato Jobard, furono sparati non meno di 13.000 colpi di Lbd. Anche le operazioni di identificazione sono sotto accusa: eseguite nei punti di passaggio tra centri ricchi e periferie povere, si concentrano su giovani maschi, di origine o aspetto forestiero, con l’effetto di rafforzare nella gente la sensazione di essere cittadini di seconda classe. Secondo il Défenseur des droits (un’agenzia statale), un giovane nero o nordafricano ha venti probabilità in più di un bianco di essere fermato dalla polizia.

Impero

Il terzo filo è il retaggio dell’impero coloniale, dal quale proviene tutta l’immigrazione. Smontato solo a parole, l’impero è vivo e vegeto, sotto due forme, entrambe irrisolte. Da una parte stanno i “dipartimenti d’oltre mare”, pienamente francesi: territori dispersi su tutto il globo a incredibili distanze dalla metropoli, costituiti da isole, arcipelaghi e frammenti, abitate perlopiù da gente in cattive condizioni economiche, inquiete e ostili alla metropoli, a dispetto del fatto che usano l’euro. La lista è impressionante: nell’Oceano Atlantico, Guadalupa, la Martinica, la Guyana Francese; nell’Oceano Indiano, le isole della Riunione, l’arcipelago di Mayotte. Poi, con statuto diverso, le “collettività d’oltre mare” come la Polinesia e la Nuova Caledonia e diverse altre, fino alle terre australi e antartiche! Dall’altra parte stanno i paesi africani su cui la Francia esercita una sorta di protettorato informale imponendo finanche una valuta di origine coloniale (il Franco Cfa).

Entrambi questi gruppi di territori sono in ebollizione. Nei dipartimenti e comunità d’oltremare sono frequenti le rivolte popolari, accentuate dai catastrofici effetti del Covid. In Nuova Caledonia e in Polinesia, dove esistono forti movimenti indipendentisti, si tengono referendum, finora senza successo, sul tema dell’indipendenza. In Africa, d’altra parte, la Francia viene via via messa alla porta (come di recente in Mali) dalle pressioni della Russia nelle vesti del Gruppo Wagner.

Ribellione francese

Il quarto filo è “la ribellione francese”. L’espressione è il titolo di un bel libro dello storico Jean Nicolas del 2008, che ha studiato le rivolte dal 1661 al 1789 (data d’inizio della più importante di tutte). Nicolas ha mostrato con documenti e tabelle che la propensione alla rivolta è un carattere costante di quel grande paese. Questo fatto è enigmatico, ma la sua evidenza è meridiana: rivolte continue, in campagna come nelle città, nei centri secondari come nelle capitali, per le ragioni più diverse.

Nei casi in cui in Italia si farebbe al più una fiaccolata cittadina, in Francia si monta immediatamente una rivolta. Nel secolo e mezzo che ha considerato, Nicolas ha contato più di ottomila e cinquecento rivolte, la maggior parte contro le pretese fiscali dello Stato, seguite da quelle contro l’apparato poliziesco e giudiziario. Come si vede, le motivazioni si ripetono: i “gilet jaunes”, che hanno messo a soqquadro il paese per due anni, si ribellavano alla fiscalità; i giovani delle banlieues, che sconvolgono la Francia da quasi vent’anni, alla polizia. Era inevitabile, infine, che tutta questa energia, così radicata e viva anche quando è fonte di enormi danni e inquietudini, trovasse espressione in letteratura e nel cinema. A raccontare di rivolte italiane ci sono sì e no i Promessi Sposi, dove per giunta i fatti si svolgono nel Seicento.

La letteratura francese invece pullula di rivolte coeve o quasi. Rivolte appaiono nell’Educazione sentimentale di Gustave Flaubert (che mette in scena la rivoluzione del 1848), nei Miserabili di Victor Hugo (la rivolta antimonarchica del 1832), in Germinal di Emile Zola (1885: una rivolta operaia), in I quarantanove di Paul Nizan (1932) e tanti altri. Al cinema dobbiamo invece il racconto di fatti più recenti, compresi le sommosse delle banlieue, raccontate in film dalla potenza perturbante, dal precorritore L’Odio di Mathieu Kassovitz (1995), ai recenti Les Misérables di Ladj Ly (2019) e Athena (2022) di Romain Gavras. Si capisce che, quando si intricano tanti moventi, e così radicati, sia arduo sciogliere i nodi e non temere che stiano davvero per venire al pettine.
 

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