Il conflitto in corso tra Israele e Iran è molto di più di raid aerei e missili scagliati contro infrastrutture militari, energetiche ed edifici residenziali civili. È anche un conflitto di propaganda politica spinta all’estremo e come tale era questione di ore prima che a finire nel mirino ci fossero i potenti mezzi di comunicazione. Dopo quattro giorni l’Idf ha colpito ieri il cuore della propaganda.

In un raid è stato preso di mira l’edificio della Tv di stato iraniana. L’attacco è avvenuto in diretta e ha assunto una valenza simbolica e politica non indifferente. Le immagini sono eloquenti. La diretta televisiva è stata interrotta bruscamente da un boato e la conduttrice è costretta a rifugiarsi mentre alle sue spalle le trasmissioni sono state strozzate dalla potenza d’urto.

Anche se non è chiara ancora la portata dei danni, l’obiettivo dell’attacco è chiaro: diffondere paura tra la popolazione civile e far vedere agli iraniani che vivono in altre città del paese diverse da quelle prese di mira in questi giorni, tutta la potenza dell’attacco israeliano.

I termini dell’offensiva

«Il regime non era a conoscenza del fatto che la voce della rivoluzione islamica e del grande Iran non sarebbe stata messa a tacere da un’operazione militare», ha detto l’alto dirigente dell’emittente, Hassan Abedini, dopo il raid.

Dichiarazioni che provano a nascondere una realtà molto più complicata. Quella in corso non è una semplice offensiva bellica. Gli ayatollah hanno subito colpi pesanti in questi giorni, ci vorranno anni per ripristinare lo status quo precedente al 13 giugno. Il regime deve fare i conti non solo con l’Unione europea e gli Stati Uniti schierati compattamente a protezione del loro più importante alleato in Medio Oriente, ma anche con i paesi arabi che per il momento non sono andati oltre alle solite dichiarazioni di condanna.

Come se non bastasse, il Pakistan ha escluso una rappresaglia atomica in caso di attacco nucleare israeliano contro Teheran e i proxies (Hamas, Hezbollah e Houthi) sono molto deboli in questo momento storico dopo gli attacchi in Libano, Siria, Yemen condotti dall’Idf in questi venti mesi.

Anche ieri, inoltre, sono stati decapitati alti vertici dei Pasdaran, diventati oramai “prede” troppo facili dello stato ebraico avrebbe anche il controllo dello spazio areo iraniano dopo aver distrutto un terzo dei lanciatori di missili terra-aria a disposizione di Teheran. Non sorprendono, quindi, le dichiarazioni del presidente Masoud Pezeshkian.

«Non abbiamo iniziato la guerra, ma risponderemo ai crimini dei sionisti; a qualsiasi livello attaccheranno, riceveranno risposta allo stesso livello. Non cerchiamo di estendere la guerra, ma risponderemo in modo deplorevole a qualsiasi attacco sul suolo iraniano», ha detto ieri. Secondo Reuters, Teheran ha chiesto ai paesi del Golfo Persico, in particolare Qatar, Arabia Saudita e Oman, di fare pressioni sul presidente degli Stati Uniti Donald Trump e arrivare a un cessate il fuoco immediato. Il ministro degli Esteri Abbas Araghchi ha rincarato la richiesta di aiuto. Basta «una sola telefonata», ha detto, da parte del presidente Trump per fermare gli attacchi. Per il momento si è offerto come mediatore il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, mentre Bruxelles ha bocciato categoricamente l’ipotesi che a trattare sia la Russia di Vladimir Putin.

Ma oltre ai canali diplomatici, Teheran proverà a riaprire il tavolo delle trattative anche militarmente. Per il momento ha intenzione di continuare a rispondere a suon di missili e droni, nella speranza che l’opinione pubblica israeliana faccia pressione sul gabinetto di guerra.

Il muro di Tel Aviv

Per il momento, però, da Tel Aviv non sembrano esserci aperture alle trattative di fronte all’occasione storica in cui si trova per fare i conti definitivi con Teheran. In un’intervista all’Abc il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto capire che per il momento i negoziati sono chiusi. «Vogliono continuare a costruire le loro armi nucleari e il loro massiccio arsenale di missili balistici, che stanno lanciando contro il nostro popolo», ha detto Netanyahu.

«Vogliono permettersi di creare due minacce esistenziali contro Israele mentre fingono di dialogare. Ma questo non accadrà», ha aggiunto. Il linguaggio politico è ancora guerrafondaio e lo stesso premier non ha escluso ieri l’uccisione della Guida suprema Alì Khamenei per porre fine al conflitto. Lo ha confermato anche il ministro della Difesa Israel Katz. L’Idf «colpirà il dittatore iraniano ovunque», ha detto ieri. Intanto, il bilancio delle vittime continua a salire e non sono esclusi civili.

Dal 13 giugno in Iran sono state uccise oltre 400 persone e ferite 1.277, nello stato ebraico il conteggio era fermo a 17 israeliani uccisi. Ma i missili balistici che hanno colpito il paese in almeno cinque località hanno causato otto morti e almeno altri 300 feriti. In serata, sono ripresi gli attacchi di Teheran che stanno aumentando di intensità e potenza giorno per giorno. La Germania ha organizzato una serie di charter da Amman per evacuare i suoi cittadini, il governo britannico ha chiesto ai suoi di registrare la loro posizione nel paese, Mosca ha invitato i russi a lasciare Israele. E dal paese degli ayatollah, intanto, i media statali riferiscono che l’esercito è pronto a sferrare «il più grande e intenso attacco missilistico della storia sul suolo israeliano».

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