Sembra appartenere alla fantapolitica l’idea israeliana di costruire un’isola artificiale davanti alla Striscia di Gaza per metterci i palestinesi. L’ha avanzata, restando serio, il ministro degli Esteri Israel Katz e non al bar davanti agli amici, ma al Consiglio dell’Unione europea.

Il linguaggio della diplomazia ha impedito di rispondere con termini robusti. Si segnala solo “l’imbarazzo” provocato nell’incredulo uditorio. Josep Borrell, l’Alto rappresentante della politica estera, ha osato andare un po’ oltre: «Inaccettabile opporsi alla soluzione dei due Stati. Cosa vuol fare Israele, uccidere tutti i palestinesi?»

Si potesse usare dell’umorismo in una situazione così tragica, si potrebbe commentare che in fondo Katz i due stati li propone: uno sulla terra e uno galleggiante dove stipare oltre un milione e mezzo di gazawi. Pare difficile che la trovata sia farina del suo sacco e non sia invece ipotesi concordata con Benjamin Netanyahu, già in passato alla caccia di un altrove per i palestinesi individuato nel Sinai ma respinto con perdite dall’Egitto di al Sisi.

L’irruzione

Le ipotesi fantasiose (eufemismo) proliferano ora che il premier dello stato ebraico è arrivato al punto di saturazione della pazienza popolare perché si sono dimostrate impossibili due promesse inconciliabili che aveva fatto dopo la carneficina del 7 ottobre: la distruzione di Hamas e la liberazione degli ostaggi. Eliminare i circa trentamila miliziani della formazione terroristica appartiene al libro dei sogni. La saturazione si è manifestata con l’irruzione di ieri dei famigliari degli ostaggi alla Knesset, culmine di un fine settimana di proteste oceaniche a Tel Aviv.

Semmai i massicci bombardamenti con oltre 25mila morti stimati (due terzi civili) hanno creato i presupposti perché altri combattenti si aggiungano nel circuito vizioso sempiterno azione-vendetta-azione-vendetta. Ma come era evidente dall’inizio è assai improbabile riscattare i rapiti se contemporaneamente continua la guerra con i raid aerei e l’occupazione della Striscia. Agli scambi di prigionieri dell’inizio, possibili grazie alla concessione di brevi tregue, non sono più seguiti accordi analoghi.

E al 107° giorno di prigionia i parenti, sostenuti da gran parte dell’opinione pubblica, hanno deciso che la misura è colma mettendo in pratica proteste clamorose come l’occupazione della Knesset e le tende montate davanti alla casa di Netanyahu, un presidio fisso fino a quando non ci sarà una soluzione.

Il premier, per cercare di calmare la delegazione che ha accettato di ricevere, ha accennato a «una proposta che non posso rivelare». Che sia l’isola che non c’è nel Mediterraneo, poi svelata dal suo ministro degli Esteri e immediatamente rispedita al mittente dal suo omologo palestinese Riyad al-Malki («Sull’isola ci vadano loro»)?

Nel propagare promesse incaute (altro eufemismo) frutto dell’irrazionalità del disperato allo scopo di cercare di perpetuare la sua permanenza al potere, Benjamin Netanyahu si è dimenticato che la questione ostaggi, fondamentale dovunque, diventa esiziale soprattutto in Israele a causa della sua storia incancellabile.

La Shoah ha insegnato che anche solo la vita di un ebreo è sacra e va salvaguardata a qualunque costo. Basti ricordare che in cambio del soldato Gilad Shalit, tenuto in cattività da Hamas per oltre cinque anni tra il 2006 e il 2011, furono liberati 1.027 prigionieri palestinesi; altre volte Israele si risolse a “dolorose concessioni” anche solo per riscattare il corpo dei suoi soldati uccisi. Sono precedenti che rendono ancora più odiosa l’inazione per i 136 che si trovano ancora nei tunnel di Gaza e nelle condizioni che ci possiamo immaginare.

La pazienza di Biden

La popolarità del premier, già precaria prima del conflitto, sta colando a picco come dimostrano i sondaggi e il futuro è irto di altre spine. A breve dovrebbero riprendere i processi per corruzione nei suoi confronti.

La comunità internazionale è pressoché all’unanimità schierata per la soluzione dei due Stati che non sia una farsa come l’espediente della nazione marittima. Con la sua intransigenza Netanyahu si è già giocato l’appoggio di Joe Biden, e sta mettendo a repentaglio l’avvio di un rapporto con l’Arabia Saudita dettasi persino disposta a riconoscere Israele, evento clamoroso, nel caso nasca uno stato palestinese. Si alleggerirebbe anche l’isolamento nell’area.

È evidente dunque che il premier più longevo dello stato ebraico è oggi l’ostacolo principale a qualunque trattativa. Rimuoverlo è complicato, non impossibile.

Servirebbe che uscissero allo scoperto i deputati del suo partito, il Likud, che privatamente esprimono insofferenza per la gestione fallimentare del potere. Oppure un voto di sfiducia alla Knesset appoggiato dai centristi, in particolare dal partito del generale Benny Gantz che oggi gode della maggioranza dei consensi. Gantz, per senso di responsabilità in un momento tanto delicato, è entrato nel gabinetto di crisi. Una decisione logica all’alba dell’8 ottobre, il giorno dopo il pogrom di Hamas, ma che ora, tre mesi e mezzo dopo, risulta controproducente.

Tanto da avvalorare un altro detto che circola: in Israele hanno più senno, sono più affidabili, i generali dei politici.

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