Questa settimana il Copasir, il comitato parlamentare che sorveglia l’intelligence nazionale, ha approvato all’unanimità una relazione che sottolinea l’esigenza «urgente e non dilazionabile» di avere una legge per il contrasto alla radicalizzazione jihadista.

La sollecitazione è senz’altro benvenuta. Per quanto la minaccia dello jihadismo globale appaia oggi meno drammatica, specialmente rispetto ai tempi d’oro del “califfato” in Iraq e Siria (2014-2017), i pericoli non sono affatto venuti meno. Lo può ricordare, da ultimo, il clamoroso assassinio del parlamentare britannico David Amess il 15 ottobre; il responsabile della violenza è un simpatizzante jihadista di origine somala, che in piena solitudine pianificava un attacco già da due anni.

In generale, un problema cruciale per le democrazie liberali, orgogliose dello stato di diritto, consiste nella difficoltà a intervenire in modo tempestivo ed efficace nei confronti di soggetti che possono attivarsi all’improvviso in qualsiasi momento prima che essi commettano un reato.

La minaccia senza confini dello jihadismo tocca naturalmente anche l’Italia. In questo senso, la stessa relazione del Copasir ha ricordato alcuni dati importanti, come i 144 foreign fighters legati al nostro paese partiti per aree di conflitto all’estero e i 313 detenuti sottoposti a monitoraggio per il rischio di radicalizzazione. In generale, oggi il carcere e internet costituiscono ambienti di particolare importanza per i processi di radicalizzazione che conducono all’estremismo violento. Oltretutto, la recente (ri)conquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani pone nuovi rischi.

Una posizione anomala

In questo contesto, anche l’Italia deve farsi trovare costantemente preparata di fronte a una sfida insidiosa, cangiante e di lunga durata. A ben vedere, la posizione del nostro paese appare per alcuni versi anomala nel panorama europeo. Da un lato, nel corso del tempo le autorità nazionali hanno sviluppato e affinato una politica antiterrorismo incisiva e aggressiva, adattando ripetutamente i propri strumenti al mutare della minaccia. Un pilastro di questa politica è diventato l’ampio uso di espulsioni di cittadini stranieri ritenuti pericolosi per la sicurezza nazionale: dal 1° gennaio 2015 a oggi sono state rimpatriate oltre 560 persone – un numero che non ha eguali in nessun altro paese europeo. L’efficacia complessiva del sistema antiterrorismo italiano è presumibilmente una delle ragioni principali per cui l’Italia è, a oggi, l’unico grande paese occidentale a non aver mai subito un attacco terroristico letale sul proprio territorio. Un’anomalia cui guardare certamente con favore.

Anche su questo fronte, è possibile immaginare ulteriori progressi. Il Copasir ha raccomandato l’introduzione di una norma che punisca il semplice possesso di materiale di propaganda jihadista (e non soltanto la sua diffusione), in modo simile a quanto già avviene per la detenzione di materiale pedopornografico. Questa esigenza è avvertita anche in altri paesi occidentali; in particolare, una stringente misura di questo tipo, non priva di aspetti delicati e potenzialmente controversi, è già stata proposta nel 2020 dal ministero dell’Interno britannico.

L’avanzamento più significativo per l’Italia riguarderebbe tuttavia un altro settore, quello dei programmi di contro-radicalizzazione e di de-radicalizzazione. Infatti, in decine di stati in occidente e altrove ormai da parecchi lustri le tradizionali politiche antiterrorismo di carattere repressivo sono affiancate, in modo complementare, da programmi di carattere culturale e sociale volti a prevenire e a contrastare i percorsi di radicalizzazione. In sintesi, questi programmi possono perseguire due finalità distinte: da un lato, possono mirare a far sì che individui a rischio non entrino in percorsi di radicalizzazione che conducono all’estremismo violento (la cosiddetta contro-radicalizzazione); a titolo di esempio, si vuole evitare che giovani vulnerabili aderiscano effettivamente alla causa jihadista.

Dall’altro lato, l’obiettivo, ancora più impegnativo e delicato, è quello di fare in modo che individui che sono già entrati in percorsi di radicalizzazione vi escano volontariamente e possano reintegrarsi nella società, rinunciando del tutto all’ideologia estremistica (la de-radicalizzazione in senso stretto) o quantomeno abbandonando la militanza attiva (il cosiddetto disimpegno): si pensi, per esempio, al caso di individui condannati alla reclusione per reati legati all’estremismo violento, durante il periodo della detenzione e, ancor più, dopo la scarcerazione. Questi programmi dovrebbero consentire di intercettare e contrastare segni di radicalizzazione nei vari ambiti della società in cui l’estremismo violento può attecchire: la scuola, il mondo del lavoro, il carcere e così via.

Significativamente, se le politiche tradizionali di antiterrorismo sono principalmente prerogativa degli apparati statali di sicurezza (in particolare, magistratura, forze dell’ordine, agenzie di intelligence), i programmi di contro-radicalizzazione e di de-radicalizzazione/disimpegno tipicamente affidano un ruolo importante e attivo ad altre autorità e istituzioni (amministrazioni locali, sistema dell’istruzione pubblica) e, non ultimo, ad attori della società civile (organizzazioni non governative, comunità islamiche, organi di stampa e altri ancora).

La società civile

Le iniziative di maggior successo non di rado riflettono le peculiarità locali del contesto in cui la radicalizzazione potrebbe presentarsi o si è già presentata: non a caso il modello forse più noto in Europa, quello di Aarhus, è stato costruito a partire dal 2007 sulla base delle esigenze specifiche di quella città danese.

In questo campo, non si può non ricordare anche l’operosa e proficua esperienza della Ran (Radicalisation awareness network), una rete, istituita dalla Commissione europea esattamente dieci anni fa, che consente a migliaia di professionisti in prima linea (operatori sociali e così via), studiosi e rappresentanti di autorità pubbliche di condividere conoscenze, esperienze di prima mano e approcci per contrastare e prevenire concretamente la radicalizzazione.

Nella pratica, questo genere di interventi di natura culturale e sociale fa i conti con limiti e anche con fallimenti, attentamente esaminati e valutati dagli esperti, ma di certo ha il merito di ampliare notevolmente la capacità di risposta proattiva alla minaccia dell’estremismo violento e del terrorismo, favorendo anche un modello di sicurezza partecipata.

Una lacuna importante

In Italia al dinamismo della politica antiterrorismo, certamente all’avanguardia nel panorama europeo, fa singolarmente da contraltare l’assenza di una strategia nazionale di contro-radicalizzazione e de-radicalizzazione/disimpegno. Ecco un’altra anomalia italiana, questa volta di segno negativo. Nel corso degli ultimi anni anche in Italia sono state sviluppate iniziative e interventi promettenti in singoli settori e/o in singoli territori (per esempio, in materia di sensibilizzazione di dirigenti scolastici e insegnanti in Lombardia), ma manca ancora una cornice nazionale, organica, istituzionalizzata e opportunatamente finanziata.

In questo contesto, l’invito del Copasir evidenzia effettivamente una lacuna importante. Nella scorsa legislatura, era stata avanzata un’apposita proposta di legge bipartisan, promossa dagli allora deputati Stefano Dambruoso e Andrea Manciulli. Approvato alla Camera nel luglio 2017, il testo non aveva fatto in tempo a raggiungere l’obiettivo del voto finale al Senato prima dello scioglimento anticipato del parlamento, nel dicembre 2017. La proposta di legge prevedeva l’istituzione di appositi strutture e organi (un Centro nazionale con Centri regionali e un Comitato parlamentare per il monitoraggio) e fissava linee guida per interventi in vari settori rilevanti, come la scuola e l’università, il mondo della comunicazione e dell’informazione, il carcere. Indicazioni assai utili vennero anche da una Commissione di studio che era stata istituita dal governo nel 2016. In questa legislatura il Partito democratico ha presentato nel 2018 una nuova proposta di legge, che riprende esplicitamente quella promossa da Dambruoso e Manciulli. Inoltre, esponenti di altre forze politiche hanno offerto contributi su questi temi. L’auspicio è che un nuovo intervento legislativo attento ed equilibrato, basato su una convergenza tra partiti differenti, possa finalmente gettare le fondamenta per una moderna strategia nazionale di contro-radicalizzazione e de-radicalizzazione/disimpegno.

Per inciso, puntando ancora più in alto, si potrebbe notare nel merito che l’approvazione di un’idonea legge per la prevenzione della radicalizzazione jihadista, ispirata a pratiche ed esperienze già maturate all’estero, non costituisce necessariamente il punto di arrivo in questo campo.

Non si può dimenticare il fatto che lo jihadismo, nonostante la sua continua e indubbia rilevanza, non è affatto l’unica forma di estremismo violento a destare preoccupazione nella nostra epoca. In molti altri stati europei e nell’ambito alla stessa Commissione europea l’impegno in materia di radicalizzazione da numerosi anni abbraccia anche gli estremismi violenti di sinistra e, soprattutto, di destra.

Idealmente, al di là delle sensibilità e degli interessi di parte, sarebbe senz’altro auspicabile valutare anche in Italia l’applicazione di queste iniziative all’estremismo violento in generale, quale che sia la sua matrice ideologica. Nel nostro paese, in particolare, viene naturale pensare all’anarco-insurrezionalismo, che rappresenta la componente più dinamica dell’eversione interna; l’Italia costituisce infatti una culla storica di questa causa estremistica e in Europa si segnala come il paese più interessato da atti di violenza con tale provenienza ideologica, insieme alla Grecia.

Non ultimo, sarebbe opportuno volgere lo sguardo anche alla radicalizzazione violenta di estrema destra, considerata in crescita in tutto l’occidente e certamente presente anche in Italia, come hanno dimostrato anche episodi di violenza recente. Oltretutto, in questa fase gli sconvolgimenti legati alla pandemia e il proliferare di teorie del complotto forniscono ulteriori elementi di preoccupazione.

In ottica realistica, prendendo atto della natura divisiva di questi temi, oggi dal punto di vista politico la priorità assoluta appare una legge sulla radicalizzazione di matrice jihadista. Su questo fronte, riconosciuto che la repressione da sola non è sufficiente, occorre agire senza indugi. In definitiva, anche in questo campo prevenire è meglio che curare.

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