La guerra di Israele per eradicare Hamas dalla Striscia di Gaza dopo gli attentati del 7 ottobre è in corso da più di sette mesi, senza che si riesca a intravedere una soluzione di lungo termine al conflitto. I miliziani di Hamas riemergono in zone che l’esercito israeliano aveva sgomberato, i combattimenti stanno diventando più feroci, le tensioni con gli Hezbollah libanesi fanno temere l’apertura di un secondo, pericolosissimo fronte.

Dal punto di vista economico la guerra a Gaza è la più costosa nella storia di Israele: la banca centrale ha stimato che il costo totale del conflitto sarà di almeno 67,4 miliardi di dollari fino al 2025, nel quarto trimestre dell’anno scorso la produzione di beni e servizi si è contratta del 21,7 per cento, il Pil è crollato del 5,6 per cento.

I fondamentali dell’economia israeliana sono abbastanza solidi da reggere il colpo. Tuttavia, i costi del conflitto in corso a Gaza e il rischio di nuove guerre minacciano le prospettive di crescita nel lungo termine, mettendo fine a una storia di successi economici che continua quasi ininterrottamente da vent’anni, un periodo in cui Israele è diventato un colosso globale dell’high-tech con un ecosistema di start-up tra i migliori del mondo.

Prima della guerra la spesa per la difesa era scesa al minimo storico del 4,5 per cento del Pil. Secondo le stime di Manuel Trajtenberg, professore emerito di economia dell’università di Tel Aviv, quest’anno è destinata a gonfiarsi fino a raggiungere il 9 per cento. La sfida per il governo di Benjamin Netanyahu – e di quelli che verranno dopo – è riportare rapidamente in equilibrio il peso delle spese militari rispetto al Pil, un obiettivo che va raggiunto nel giro di pochi anni. Altrimenti, il timore di alcuni economisti israeliani è che il paese si trovi a vivere in un altro decennio perduto.

Il decennio perduto dello Yom Kippur

Il riferimento è al decennio che ha seguito la guerra dello Yom Kippur nel 1973, quando lo stato ebraico si fece cogliere impreparato da un attacco congiunto dei paesi arabi che lo circondano rischiando di capitolare.

Dopo 18 giorni Israele riuscì a vincere la guerra, pagando un prezzo elevatissimo in termine di vite umane (soprattutto soldati), distruzione di mezzi e crollo dell’economia. Per salvarsi gli israeliani dovettero fare affidamento sugli Stati Uniti, che fornirono equipaggiamento e munizioni.

Fu una dura lezione, dissero i leader di allora, il paese doveva aumentare il livello di preparazione delle sue forze armate. Lo stato ebraico ci ha messo quasi dieci anni a ricalibrare il bilancio pubblico tra le spese per la difesa e quelle per lo sviluppo economico, poiché l’insistenza sul fatto che Israele non dovesse mai più farsi cogliere impreparato portò a un aumento continuo delle spese militari, che nel periodo 1973-1975 raggiunsero una media del 29 per cento rispetto al Pil.

Il prezzo per i conti pubblici fu altissimo: il rapporto debito/Pil superò il 150 per cento, alimentando un’inflazione a doppia e tripla cifra che nel 1984 raggiunse il 480 per cento. L’economia iniziò a tornare in ordine nella seconda metà degli anni Ottanta, quando Israele chiamò economisti dall’estero per farsi aiutare nel redigere un piano di riforme strutturali per tagliare la spesa pubblica, stabilizzare lo shekel, e creare le condizioni per attrarre i primi investimenti diretti esteri.

La prossima sfida

L’Israele di oggi è molto diverso dal quello che era nel 1973, ovvero un piccolo paese con un’economia isolata, boicottata, e statalista. L’economia israeliana è tra le più brillanti dei paesi Ocse, lo stato ebraico è entrato nell’attuale conflitto con un rapporto debito/Pil al 63 per cento che nel corso di quest’anno dovrebbe aumentare fino al 67 per cento: una performance degna dei paesi più frugali dell’Eurozona. La banca centrale ha accumulato 200 miliardi di euro di riserve in valuta estera, e dopo il decennio perduto Israele ha sempre superato le crisi economiche causate dalle guerre.

Tuttavia, stavolta la sfida è senza precedenti. L’economia dello stato ebraico non è mai stata sviluppata, liberale e globale come negli ultimi vent’anni. Ma questi punti di forza sono anche un fattore di debolezza, poiché non è detto che Israele sarà in grado di tornare all’apertura internazionale di cui ha goduto negli ultimi anni – in buona parte grazie all’abilità di Netanyahu nel far dimenticare al mondo la questione palestinese – che ha permesso al paese di ricevere un flusso costante di massicci investimenti esteri, di aprirsi al turismo di massa, e di non subire boicottaggi significativi.

Il pericolo maggiore è il crollo permanente degli investimenti nel settore high-tech, che nel caso israeliano spesso è legato alla difesa o alle iniziative imprenditoriali di ex militari.

Una caratteristica che oggi può diventare fonte di imbarazzo e scoraggiare sia le società straniere che vogliono investire in Israele, sia gli israeliani che vogliono continuare a fare impresa nel proprio paese, spingendoli a trasferirsi all’estero. Nel 2023 gli investimenti diretti esteri sono crollati del 28,7 per cento rispetto al 2022 raggiungendo il livello più basso dal 2017, e questo prima della guerra.

Il fattore umano

Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich (foto EPA)

Ad affrontare la crisi è il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, leader del partito nazional-religioso di estrema destra HaTzionut HaDatit, colono che vive in un insediamento illegale nei territori palestinesi occupati, promotore della spesa pubblica per il sostegno delle scuole religiose che non preparano gli studenti al moderno mercato del lavoro, e insieme a Itamar Ben-Gvir sostenitore delle politiche più divisive e guerrafondaie di Israele.

Una lettera al governo Netanyahu firmata da decine di economisti mette in guardia da una «spirale del collasso», in cui gli israeliani più istruiti scelgono di emigrare insieme alle loro imprese e competenze, rifiutando di assumersi l’onere di sostenere le famiglie di ultra-ortodossi e le politiche dei leader nazional-religiosi di estrema destra.

Una discussione sull’uso delle risorse pubbliche e sulla politica economica che allargherà la spaccatura fra laici e religiosi della società israeliana, e che dopo la guerra imporrà una resa dei conti sul futuro della democrazia di Israele.

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