«Qui a Gerusalemme vennero due donne sostenendo di essere la vera madre di un bambino davanti a re Salomone», ha esordito Netanyahu nel suo attesissimo discorso in serata sulla controversa riforma del sistema giudiziario, che svuoterebbe di potere la Corte Suprema.

«Il re Salomone chiese una spada e ordinò di dividerlo in due», ha continuato, come suo solito arricchendo i discorsi con coloriti riferimenti biblici. Fuori metafora il bambino sarebbe Israele, e le due madri gli israeliani favorevoli e contrari alla riforma, ormai arrivati ai ferri corti in una contesa che mette in pericolo la sopravvivenza del paese.

La vera madre, quella disponibile a cederlo per amore e salvargli la vita nel prosieguo della storia, sarebbe lui: «Quando c’è la possibilità di evitare la guerra civile attraverso il dialogo, mi prendo una pausa per il dialogo», ha detto Bibi, aggiungendo che «per responsabilità nazionale» intende rinviare l’iter legislativo per la riforma. «Una cosa non sono disposto ad accettare», ha continuato.

«C’è una minoranza di estremisti che è disposta a fare a pezzi il nostro paese... accompagnandoci alla guerra civile e chiedendo il rifiuto del servizio militare, che è un crimine terribile», ha detto. Alludeva alle decine di migliaia di riservisti che hanno promesso di non rispondere alle chiamate dell’esercito se la riforma non venisse bloccata.

La giornata di proteste

I voli in uscita dall’aeroporto di Tel Aviv bloccati. La Histadrut, storica federazione dei sindacati israeliani, in sciopero con l’approvazione delle più grandi aziende del paese, un fatto senza precedenti dall’epoca del mandato britannico.

Il capo della polizia di Tel Aviv che sfila insieme ai manifestanti mentre bloccano la Ayalon, la superstrada intorno alla città costiera (Ami Eshed era stato licenziato dal ministro della Polizia Itamar Ben Gvir per non aver gestito le proteste in modo più aggressivo, ma poi era stato reintegrato dalla Corte Suprema). La protesta contro la riforma del sistema giudiziario in Israele, che cresce inesorabilmente di intensità dalla prima metà di gennaio, ha raggiunto un nuovo picco nella giornata di ieri.

Tanto è stato necessario affinché Netanyahu si piegasse a una pausa di riflessione. Dopo un’affluenza record nel tradizionale appuntamento di sabato sera – si stimano addirittura mezzo milione di persone – il licenziamento domenica sera di un ministro del premier Benjamin Netanyahu favorevole a compiere un passo indietro ha provocato una nuova escalation. I dimostranti, secondo cui svuotare di potere la Corte Suprema significa aprire la strada a una deriva autoritaria, hanno di fatto bloccato il paese.

Università in sciopero, strade sbarrate, negozi chiusi, scali ferroviari fuori uso. Una mobilitazione senza precedenti che tuttavia è rimasta entro i confini dell’obiezione di coscienza e della disobbedienza civile, senza degenerare, per ora, in fatti violenti. A Gerusalemme, intorno alla Knesset, il parlamento israeliano, sono arrivati in centomila per manifestare contro la riforma. 

Finché i massimalisti guidati da Ben Gvir hanno aperto al compromesso: «Accettiamo un rinvio, in cambio della formazione di una Guardia Nazionale», hanno fatto sapere in un comunicato, alludendo a una non meglio identificata milizia che Netanyahu avrebbe accettato di mettere alle dipendenze del loro leader. Poco dopo Ben Gvir ha twittato: «La riforma passerà, la Guardia Nazionale verrà fondata», facendo presagire nuove ondate di caos.

Timori di violenze

Durante tutta la giornata, a partire dalle 10 del mattino, i media hanno dato per imminente una dichiarazione di Benjamin Netanyahu in cui avrebbe annunciato il rinvio. Da parte sua il ministro della Giustizia e architetto del pacchetto legislativo Yariv Levin ha dichiarato: «Rispetterò qualsiasi decisione prenda il premier Netanyahu», di fatto dando il proprio benestare a un’eventuale retromarcia. 

Per rispondere all’ondata di manifestazioni degli oppositori, per la prima volta anche la destra ha chiesto ai suoi una dimostrazione di forza. Con un appello a radunarsi alle 18 a Gerusalemme, nei pressi della manifestazione degli anti-Netanyahu, i rappresentanti dell’estrema destra di sionismo religioso hanno lanciato lo slogan «non ci ruberanno le nostre elezioni», un’allusione al successo elettorale dell’attuale maggioranza di governo. 

I manifestanti filo-governati hanno intonato «il popolo pretende la riforma giudiziaria» e portato cartelli con la scritta «sono un cittadino di serie B». Secondo loro, infatti, la levata di scudi degli anti-Bibi sarebbe una protesta elitaria che penalizza la volontà della maggioranza di israeliani, appartenenti alle classi popolari.

Fra i cori anche «Basta con la dittatura di Bagaz», cioè la corte suprema, accusata di imporre principi laici e liberali mediante un iper-attivismo che contraddice l’equilibrio fra i poteri in democrazia. Il timore che le due manifestazioni possano venire a contatto, provocando incidenti, ha indotto Netanyahu a farsi vivo durante la giornata perlomeno con un tweet: «Chiedo ai manifestanti di Gerusalemme, quelli di destra e quelli di sinistra, di comportarsi in maniera responsabile e non lasciarsi andare ad atti di violenza. Siamo tutti fratelli», ha scritto.

Fra gli organizzatori della contro-mobilitazione pro-Bibi anche gruppi estremisti come “La Familia”, gli ultras razzisti del Beitar Ierushalaim, e Lehava, la formazione oltranzista anti-araba.

Le ultime tappe

Giovedì scorso si erano diffusi nei corridoi dei palazzi del potere di Gerusalemme voci secondo cui il ministro della Difesa Yoav Gallant si apprestava a dichiarare la propria opposizione al proseguimento dell’iter legislativo della riforma, proprio alla luce delle proteste.

In serata Netanyahu aveva convocato una conferenza stampa, dopo un incontro con Gallant, in cui secondo gli osservatori avrebbe dovuto fare un passo indietro rispetto alle misure. La piazza già cantava vittoria e celebrava l’efficacia della protesta popolare. Invece il discorso di Netanyahu giovedì scorso si è rivelato vuoto di elementi concreti.

Non persuaso, sabato Gallant ha dichiarato pubblicamente la sua posizione, spiegando che la crisi attuale mette a rischio la sicurezza dello stato, a causa dei riservisti, che hanno promesso di non onorare le convocazioni dell’esercito. 

Domenica il suo licenziamento in tronco da parte di Netanyahu ha provocato la nuova indata di proteste, le più veementi e sentite: sulla Ayalon, la superstrada che circonda Tel Aviv, i dimostranti hanno acceso falò e bloccato il traffico. A Gerusalemme un raduno di massa nei pressi della residenza di Netanyahu ha sfondato delle barricate della polizia mentre gli idranti della polizia bagnavano i manifestanti. Poi ieri sera il passo indietro di Netanyahu.

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