Israele vuole la Cisgiordania: «Dite addio alla Palestina»

Come se non bastassero la situazione infuocata e la tensione internazionale alle stelle, è arrivato dritto il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich a dire che Israele «seppellirà definitivamente l’idea di uno stato palestinese». Mangiare terra «Chi nel mondo cerca di riconoscere la Palestina, otterrà una risposta da noi sul campo», ha sentenziato Smotrich rivolgendosi ai leader internazionali. E non lo ha detto in un momento a caso: proprio nella notte tra mercoledì e giovedì, infatti, il governo guidato da Benjamin Netanyahu - come aveva preannunciato di voler fare già qualche mese fa - ha trovato la quadra all’interno della maggioranza per l’approvazione definitiva del piano E1: tremila quattrocento nuovi insediamenti dei coloni nell’area di Maale Adumim e una conquista sostanziale di gran parte del territorio palestinese, tanto da separare di fatto in due la Cisgiordania. Da una parte Gerusalemme, dall’altra Betlemme. A nulla sono valse fino all’ultimo le proteste di associazioni internazionali e gruppi israeliani come Ir Amim e Peace Now. «Non solo il piano strapperà la terra a un milione di palestinesi che vive tra Ramallah, Gerusalemme e Betlemme – ha spiegato Amy Cohen, direttrice delle relazioni Internazionali di Ir Amim – ma soprattutto metterà una pietra tombale sulla prospettiva di una soluzione a due stati». Gaza e il “genocidio”, non risolvere con la retorica ciò che va risolto con la politica Trump alle spalle Ed è esattamente quello che il governo Netanyahu ha deciso di sottolineare in queste ore, plausibilmente contando già sul benestare degli Stati Uniti. Lo confermano i segnali arrivati nel pomeriggio di giovedì, quando il dipartimento di stato americano ha detto che la «stabilità della Cisgiordania garantisce la sicurezza di Israele ed è in linea con l'obiettivo dell'amministrazione Trump di raggiungere la pace nella regione». Una dichiarazione volutamente vaga, che non si assume la responsabilità di statuire se il piano E1 venga pienamente avallato dall’amministrazione Usa oppure presenti criticità. Non hanno lasciato adito a dubbi, invece, le posizioni dell'Autorità Nazionale Palestinese e dell’Egitto, che hanno condannato l’approvazione del piano E1; soprattutto perché - ancora una volta - si rischia di sparigliare le carte al tavolo delle trattative. «Si tratta di un passo che riflette il piano dello stato di Israele di impossessarsi delle terre palestinesi e di modificare la situazione geografica delle terre che occupa, in flagrante e totale violazione del diritto internazionale e delle regole del consiglio internazionale», ha detto il ministero degli Esteri egiziano. Svuotare la Striscia, l’Idf si mette sull’attenti: la deportazione punta anche sulla Libia Intelligence al lavoro Proprio al Cairo, in queste ore, sono in corso i negoziati tra i funzionari dell'intelligence egiziana, Hamas e gli inviati di Qatar e Stati Uniti per trovare un accordo su Gaza. Non facile alla luce delle dichiarazioni incendiarie di Smotrich del governo Netanyahu, che appaiono come manifesti di una volontà di andare avanti con il proprio progetto: sulla Cisgiordania come su Gaza. Mentre nella capitale egiziana si lavora su un versante, intanto in Qatar si tenta di arrivare a una soluzione in tempi rapidi. Infatti, il direttore del Mossad David Barnea era a Doha, dove ha incontrato altri esponenti delle diverse delegazioni in campo per discutere di alcune questioni; tra quelle risolvibili nell’immediato non vi sarebbe il rilascio degli ostaggi. Re Starmer è nudo: attivisti pro Gaza arrestati in massa Gli ostaggi attendono «Da quel che sappiamo – ci racconta il giornalista gazawi Hassan Isdodi – fino a giovedì si stava discutendo di una variante del progetto dell’americano Witkoff che prevede il ritorno immediato di almeno una ventina di ostaggi». Ma le cose sarebbero cambiate proprio giovedì, dopo l’annuncio del piano E1. Secondo le fonti, infatti, l’intesa sugli ostaggi si sarebbe allontanata di colpo. Nel frattempo, però, si sono fatte più insistenti le pressioni della Turchia su Hamas che, dopo aver ottenuto gli aiuti umanitari, con il lancio dagli aerei dei pacchi alimentari, non hanno più cartucce da giocare e, dunque, ora devono accettare l’accordo. «Si dice che Ankara abbia chiesto ai leader della jihad di deporre le armi e lasciare il governo della Striscia», spiega ancora il cronista Isdodi. «E se lo facessero, i gazawi festeggerebbero. Lo hanno già deciso: se ci sarà una resa saranno già in programma delle manifestazioni di piazza». Eppure, in queste ore, non si sta parlando dei futuri piani militari per la Striscia: l’attenzione di Netanyahu e del presidente statunitense è su tutt’altro fronte. Netanyahu vuole occupare anzitutto il prossimo voto Il versante iraniano Dopo la guerra dei 12 giorni di un mese e mezzo fa e quasi 50 anni di aperta ostilità, Iran e Israele potrebbero presto riuscire a siglare un patto di non aggressione mediato dall’inquilino della Casa Bianca. «Big Beautiful Deal», lo ha battezzato Trump, anche se non sarebbe un vero e proprio accordo di pace, bensì un impegno reciproco a non attaccare i rispettivi territori o le rispettive leadership. Per ora, nessuno a Teheran o a Tel Aviv ha ammesso di esser d’accordo. La tensione è ancora molto alta, anche a causa della guerra a Gaza e della trattativa con Hamas che gli Ayatollah hanno sempre appoggiato nel comune obiettivo di “distruggere Israele”. Gli scenari restano complessi e al contempo sono in evoluzione: presto il quadro del Medio Oriente potrebbe mutare. Il macigno sulla coscienza dell’Occidente, su Gaza è in gioco la sua reputazione Potrebbero cambiare gli equilibri, ma anche le geografie, con nuovi confini che determineranno nuovi padroni e altrettanti esuli palestinesi, carichi di dolore e rabbia e alla ricerca di una nuova leadership politica, che sia di Hamas oppure no. A Gaza o in Cisgiordania.