Prima ancora che pandemia e guerra in Ucraina lo scalzassero nella gerarchia delle emergenze planetarie, il jihadismo appariva un fenomeno in declino. La fine dell’Isis come entità statuale territoriale e la morte del suo uomo simbolo, avvenuta qualche mese prima della comparsa del coronavirus, potevano infatti essere interpretati come l’esaurimento del ciclo di violenza esploso nel 2014. Tuttavia, l’arretramento dell’islamismo armato sulla scena globale è stato compensato dalla moltiplicazione dei fronti locali, secondo un’oscillazione che caratterizza il jihadismo contemporaneo sin dalla sua apparizione.

Questa può essere collocata all’inizio degli anni Ottanta in Egitto, dove un tentativo d’insurrezione islamista costa la vita al presidente Sadat, ma non riesce a rovesciare il regime. Segue la mobilitazione allo stesso tempo nazionale e internazionale contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan. È qui che converge la prima grande ondata di foreign fighters, venuti a sostenere i mujahidin locali nella loro lotta per la liberazione del paese centroasiatico.

I fronti

Nel 1989, il ritiro dei sovietici da Kabul innesca un movimento contrario di dispersione di migliaia di militanti che, forti dell’esperienza afghana, si distribuiscono tra diversi teatri. I tre grandi fronti che emergono nella prima metà degli anni Novanta, l’Algeria, l’Egitto e la Bosnia, non danno tuttavia i risultati sperati.

Nei due paesi arabi, la brutalità degli atti terroristici cui ricorrono i jihadisti allarga il fossato tra questi ultimi e la società; in Bosnia, gli accordi di Dayton impediscono di trasformare i Balcani in un nuovo avamposto della riscossa jihadista. Un miliardario saudita di nome Osama Bin Laden si convince intanto che il nemico contro cui concentrare le proprie energie sono gli Stati Uniti e in generale i paesi occidentali. I fallimenti delle insurrezioni locali spingono lui e l’egiziano Ayman al-Zawahiri a dichiarare che «uccidere gli americani e i loro alleati, siano essi civili o militari, è un dovere che s’impone a ogni musulmano», come stabilisce la fatwa che dà vita al Fronte islamico mondiale per il jihad contro gli ebrei e i crociati. È il 1998 e, con il nome di al-Qaida, il fronte diventerà per diversi anni la più nota e temuta formazione jihadista del mondo.

Beneficiando prima del caos creato in Iraq dall’invasione americana del 2003 e poi della guerra civile siriana dal 2011 in avanti, l’organizzazione dello Stato islamico sottrae ad al-Qaida la guida del jihad globale. Tuttavia, per quanto la sua aspirazione califfale attragga una quantità senza precedenti di combattenti, l’Isis non ha più successo della sua concorrente nel generare una sollevazione islamica mondiale. Al contrario, l’efferatezza delle sue azioni suscita l’indignazione generalizzata di molti musulmani, che sono peraltro il principale bersaglio dell’intransigenza dottrinaria e della furia annientatrice di al-Baghdadi e compagni.

Soprattutto, oltre a sconfiggere militarmente l’Isis in Iraq e in Siria, gli stati occidentali e gli stati arabo-musulmani più solidi si sono ormai dotati di sofisticati, e talvolta brutali, dispositivi anti-terrorismo, ciò che rende improbabile una terza ondata jihadista dopo quella di al-Qaida e quella dello Stato islamico.

Tra locale e globale

L’impasse dell’islamismo radicale transnazionale produce così un cambio di paradigma che non è soltanto geografico, ma metodologico. Nella sua dimensione locale, il jihadismo tende a riconoscere la legittimità dei confini esistenti, è più incline al compromesso, ammette il principio di relazioni e negoziati con altri attori politici, nazionali e internazionali, limita le violenze indiscriminate, come quelle prodotte dagli attentati suicidi, e diffida dei riflettori mediatici, che inevitabilmente attirano l’attenzione degli apparati di sicurezza.

Il jihadismo globale, rifiutando la logica vestfaliana dello stato nazionale, aspira invece a mobilitare in blocco la umma, la comunità islamica universale, per imporne il primato sulle altre collettività umane, è attento a preservare la propria purezza ideologica, tende al massimalismo e privilegia azioni dimostrative dalla forte valenza simbolica.

Esemplificativa dell’evoluzione dal jihad globale a quello locale è la traiettoria di Hay’at Tahrir al-Sham. Nata nel 2011 con il nome di Jabhat al-Nusra nel contesto della guerra siriana e affiliatasi nel 2013 ad al-Qaida, nel 2016 HTS si sgancia dalla formazione di al-Zawahiri per affermarsi come attore autonomo, concentrandosi territorialmente nel governatorato di Idlib, ultima roccaforte ribelle contro il regime di Assad. Qui instaura un governo civile, cerca di dar prova della propria affidabilità contrastando la presenza di Isis o dei gruppi ancora legati ad al-Qaida e intensifica i tentativi di allacciare rapporti internazionali nella speranza che questo le valga la rimozione dalla lista delle organizzazioni terroristiche.

La vittoria talebana dell’estate 2021, ottenuta con un paziente lavoro di radicamento e legittimazione tra la popolazione afghana, diventa per i fautori del nuovo approccio la storia di successo a cui guardare, come ha dichiarato un ideologo di Hay’at Tahrir al-Sham in una conferenza intitolata “Jihad e resistenza nel mondo islamico: i Talebani come modello”.

Dinamiche simili si verificano nell’Africa saheliana, dove il jihadismo arriva a metà degli anni Novanta sulla scia della guerra civile algerina, si struttura come filiale nordafricana di al-Qaida (al-Qaida nel Maghreb Islamico, AQMI), ma progressivamente assume caratteristiche proprie, fortemente legate alle dinamiche politiche ed etniche in cui è coinvolto.

Le differenze tra il jihadismo globale deterritorializzato e gli emirati jihadisti locali non cancellano le loro possibili interazioni e sovrapposizioni. In alcuni momenti le due tipologie coesistono, cooperano, si confondono o si alimentano a vicenda.

Per limitarsi a qualche esempio, tra la metà degli anni Novanta e i primi anni Duemila, in Afghanistan vige una divisione del lavoro: i Talebani si dedicano al jihad interno, Bin Laden e al-Qaida usano il paese come base per le loro operazioni internazionali; l’Isis nasce come gruppo jihadista iracheno, si affilia ad al-Qaida e quando se ne emancipa si pone a capo del jihad globale; la maggior parte delle organizzazioni jihadiste dell’Africa saheliana sono affiliate ad al-Qaida o all’Isis, ma è difficile determinare con chiarezza se esse siano soltanto l’espressione di rivendicazioni locali o invece agiscano effettivamente come declinazioni locali di progetti transnazionali. Inoltre, anche le formazioni che, come la siriana Hay’at Tahrir al-Sham, optano per l’autonomia ideologica e operativa possono sostenere che la loro missione continua a iscriversi nella lotta per l’edificazione di un ordine islamico mondiale.

Interventi diversi

Ciò non toglie che gli interventi contro l’islamismo armato debbano essere modulati a seconda della forma che esso assume. Il jihadismo globale si appella a una comunità virtuale, incarnata di fatto da un’avanguardia di militanti, spesso giovani, radicalizzati in piccoli gruppi o attraverso internet, che non hanno un legame diretto con conflitti specifici e concepiscono perciò il proprio nemico in termini generici o astratti. La risposta a questo tipo di fenomeno, perciò, chiama in causa innanzitutto i sistemi di intelligence e di sicurezza, oltre ai soggetti, a partire dalle comunità religiose, che sono in grado di contribuire a prevenire i processi di radicalizzazione.

Gli emirati locali, al contrario, possono godere di un consenso popolare diffuso, dal momento che si affermano in contesti territoriali concreti segnati da crisi e conflitti anche quando questi non hanno originariamente un nesso con l’ideologia islamista. In questo caso, l’approccio militare non basta, ma occorrono soluzioni politiche capaci di affrontare i problemi che hanno favorito il radicamento islamista.

Vent’anni di “guerra al terrorismo” hanno fatto registrare progressi significativi sul primo fronte, resta molto da fare sul secondo. Lontano dai nostri sguardi, il jihadismo ha un futuro.

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