Era il tema sulla bocca di tutto il mondo che ruota attorno alla politica a Washington, capitale federale degli Stati Uniti. Poi Joe Biden lo ha rivelato esplicitamente, come è solito fare, senza usare eufemismi: la sua candidatura alle presidenziali del 2024 è una corsa riluttante.

Andiamo con ordine: durante un evento di raccolta fondi a Boston, peraltro pesantemente disturbato da una manifestazione filopalestinese, il presidente ha dichiarato che, se non fosse per la presenza di Donald Trump, non sa se si sarebbe ricandidato. Una frase che denota una grande stanchezza e spiega in parte anche perché, a livello di policy, non sappiamo molto di ciò che proporrebbe una seconda presidenza Biden.

Se andiamo a leggere il discorso dell’altra sera, ad esempio, non si trova alcuna novità. Soltanto l’esaltazione dei risultati finora raggiunti, con un record di occupati e una crescita economica di tutto rispetto e l’ennesimo monito riguardante quella che appare sempre più come una possibilità concreta: una seconda presidenza di Donald Trump avrebbe chiari tratti autoritari.

Lo spettro di una dittatura

Tanto che un recente editoriale sul Washington Post di Robert Kagan, noto intellettuale conservatore che da anni mette in guardia dai rischi del trumpismo, ha evocato lo spettro di una vera e propria “dittatura” trumpiana. Possibilità evocata persino da un giornalista vicino ai trumpiani come l’anchorman di Fox News Sean Hannity che in un’intervista all’ex presidente ha fatto la domanda diretta: «Promette di non abusare del suo potere?».

A cui Trump ha risposto: «Non sarò un dittatore, se non il primo giorno». Affermazione sibillina che data anche la sua arcinota attitudine a mentire spudoratamente non ha rassicurato nessuno, al netto del fatto che la possibilità concreta potrebbe anche non esserci.

Ad ogni modo, né i buoni risultati di questo primo quadriennio né le tendenze autocratiche del possibile vincitore delle presidenziali del 2024 sono motivazioni sufficienti per fornire valide ragioni a un elettorato tutt’altro che entusiasta di Biden e che soprattutto ha una debolezza irrisolvibile: quella legata all’età. Andiamo quindi all’altra questione cruciale: perché i dem non sostituiscono Biden.

Poche alternative

Il presidente è convinto di essere l’unico in grado di unire dietro di sé una coalizione di progressisti e moderati simile a quella della contesa del 2020. Convinzione poco solida, dato che la sua posizione di sostegno incondizionato o quasi allo sforzo bellico di Israele di fatto gli ha alienato il sostegno degli statunitensi di origine araba, oltreché i delusi dell’ala progressista, ormai sfiduciati riguardo a un secondo mandato del presidente.

In altre epoche politiche, inquilini della Casa Bianca impopolari come Harry Truman e Lyndon Johnson vennero sostituiti anche ricorrendo a una contesa aperta. Ipotesi che viene rigettata dall’apparato dem, perché sarebbe eccessivamente dispendiosa e sprecherebbe preziose risorse economiche che invece andrebbero impiegate per far fronte alla minaccia trumpiana e magari mantenere la fragilissima maggioranza al Senato.

Ecco l’altro punto dolente dei democratici: i potenziali sostituti di Biden pronti all’uso non esaltano nessuno. La vicepresidente Kamala Harris non è mai uscita da una coltre di impopolarità e percepita incompetenza che viene acuita dal suo fallimento nel curare il dossier maggiore che le era stato affidato, quello relativo alla sicurezza del confine del Messico, che attualmente appare ben lungi dall’essere sotto controllo.

A poco è valso un blitz mediatico di ritratti politici sul magazine settimanale del New York Times e The Atlantic lo scorso ottobre che peraltro ricordava i suoi solidi legami con lo stato ebraico, skill che oggi serve a poco dal punto di vista meramente elettorale.

Un altro possibile sostituto del presidente, il governatore della California Gavin Newsom, lascia perplessi gli osservatori non soltanto per le sue posizioni politiche molto progressiste, ma anche per quel carisma che fa poca presa sull’elettorato nazionale. Per citare il contenuto di un editoriale critico pubblicato sul portale di politica The Hill, «quello che funziona in California spesso non va a Peoria», antico adagio che si riferisce a una piccola cittadina dell’Illinois.

Le debolezze di Newsom sono svariate: dal suo record sul Covid, dove ha implementato un lockdown durissimo che lui stesso ha violato con una cena in un ristorante di lusso della Napa Valley, dai dubbi relativi al suo acquisto di una grande villa nei dintorni di Sacramento per arrivare agli elogi sperticati delle auto elettriche cinesi fatto durante un recente viaggio nel Paese del Dragone. Per arrivare al recente dibattito su Fox News contro il suo rivale ideologico preferito, il governatore della Florida Ron DeSantis, dove secondo i giudizi prevalenti è stato tutt’altro che brillante.

Quindi ecco spiegato il perché di una candidatura riluttante da parte di Biden, che certo non può ringiovanire da cui al prossimo novembre 2024. Sempre che la sfidante di Donald Trump Nikki Haley, ex ambasciatrice presso le Nazioni unite ed ex governatrice del South Carolina, non faccia il miracolo grazie ai soldi e all’infrastruttura politica che gli offre il miliardario Charles Koch, che di recente ha deciso di sostenerla. A quel punto, forse, anche lo stesso Biden potrebbe cambiare idea.

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