Eminenza, come motto episcopale Lei ha scelto “cooperatori della verità”. Che cos’è la verità?

È una delle grandi domande dell’umanità, alla quale non si può rispondere velocemente e alla leggera. Pilato l’ha posta a Cristo. Considererei diversi livelli. Innanzitutto, c’è una premessa soggettiva della verità: che quello che dico corrisponda a quello che penso. Vale a dire che il pensare e il dire siano in sintonia. A questo si aggiunge necessariamente un secondo livello: che quello che dico e penso anche corrisponda con quello che veramente è. E se raggiungo questa corrispondenza, nasce la verità.

Si pone a questo punto il grande problema: sin dove giunge la nostra possibilità di pensare e dire correttamente quello che è? Oggi molti pensano che questo sia possibile solo riguardo a ciò che è materiale. Siamo per così dire nati ciechi riguardo alla verità. È giusto che abbiamo la vista molto malata quando si tratta dell’essenziale che si nasconde dietro le cose materiali. Ma Dio, per così dire, ci ha dato ripetizioni nella storia della fede e ha aperto i nostri occhi, così da potere imparare a vedere. Il mio motto “collaboratori della verità” naturalmente è pensato per colui che è egli stesso la verità. Siamo cooperatori nell’aiutare a rendere visibile la verità nel mondo, che possiamo vederla che si possa vivere secondo di essa. Perché la verità non è solo qualcosa di teorico, ma la verità è un criterio. Chi la vede, deve attenersi a essa. In questo termine si tratta di questo: imparare a vedere e attenersi a quello che possiamo imparare a vedere.

Lei si rivolge a una fede forte. Ma che cos’è la verità per uomini a cui manca la fede? Quali ponti conducono dalla ragione alla fede?

Naturalmente è difficile immaginarsi qualcosa con questi termini. Ma nel nostro tempo abbiamo imparato a convivere con l’impossibilità a immaginarci molte cose. Direi che anche qui, nonostante l’insufficienza della nostra immaginazione, ci sono ponti che dalla ragione portano alla fede. In qualche modo sappiamo che l’uomo aspira a più dei pochi anni della sua vita. Sappiamo che l’amore ha in sé una pretesa di eternità. In questo senso sarebbe assurdo, se questo non ci fosse.

Ma concretamente e praticamente, come dobbiamo immaginarci l’eternità?

Eternità significa che, come uomini possiamo aggrapparci a qualcosa che non tramonta, che è eterno; se ci aggrappiamo all’amore e alla verità, ci siamo aggrappati a quello che può portarci attraverso la morte. Ancora più praticamente: se ci aggrappiamo a Cristo. Egli è colui che ci porta attraverso la notte buia della morte e che ci dà l’eternità che possiamo immaginarci nel senso che quello che sempre desideriamo e mai raggiungiamo esiste: l’appagamento vero, pieno, la gioia che non ha da temere alcuna fine, alcuna rottura.

Da giovane teologo lei si è prevalentemente occupato della questione della chiesa, mentre più tardi più della figura e del messaggio di Gesù Cristo. In questo cambiamento vede uno spostamento di accento?

Sì, naturalmente c’è un cambiamento d’accento all’interno della continuità della fede e del pensiero, che si è resa necessaria semplicemente in virtù dello sviluppo dei tempi. Allora, cinquant’anni fa, il cristianesimo in quanto tale stava abbastanza solidamente al centro della società occidentale. Così che potevamo vedere, dovevamo cercare come la chiesa, nella quale la fede vive, dalla quale essa ci viene incontro, potesse rispondere meglio alla sua missione. Oggi il vento ci soffia contro molto più fortemente. In molti hanno comunque già abbandonato la chiesa. La questione è divenuta più radicale. Cristo è ridotto a Gesù. A un uomo esemplare sul quale le idee sono molto differenti. La questione di Dio è largamente accantonata. Rimangono esempi umani ma fino a Dio non si arriva affatto. Così che oggi la questione è: questo Gesù è più di una figura esemplare qualsiasi di un tempo? In lui raggiungiamo veramente Dio? Solo se rispondiamo a queste domande, possiamo sostenere la sfida che pone il nostro presente. Se non liberiamo nuovamente la vista verso Dio, viviamo nel non vincolante. Proprio l’idea che non possiamo vedere la verità significa che in fin dei conti ognuno può immaginarsi la vita come vuole, che non abbiamo obblighi e anche la vita poi diviene vuota. Per questo oggi è necessario porre le domande in modo più radicale rispetto a cinquant’anni fa.

Lei stesso segnala di continuo come la chiesa sia troppo fortemente occupata con sé stessa. Cosa consiglia alla chiesa?

Naturalmente è difficile dare velocemente grandi consigli, il primo lo ha appena menzionato lei: non si tratta dell’eterna disputa infra-ecclesiale per ottenere posizioni, influenza, potere, per quanto il giusto ordinamento della chiesa sia importante. Esso risulta tanto più, quanto più noi facciamo quello per cui la chiesa esiste. Essa esiste affinché Dio possa divenire visibile in questo mondo. La Costituzione sulla chiesa del Concilio Vaticano II la definisce appunto come lo specchio o anche come la finestra attraverso cui Dio si fa incontro a questo mondo. Per questo la chiesa dovrebbe soprattutto tentare di accettare le sfide del mondo moderno e parlare a esso in modo comprensibile e credibile di Dio.

Questo presuppone che gli uomini che prestano servizio nella chiesa, siano essi stessi molto credenti. E qui poi spesso ci si imbatte in una silenziosa contraddizione: si dice di essere credenti, lo siamo, si dice, ma del tutto certi non lo siamo. Quando si percepisce che uno e diviso in sé stesso, allora anche la risposta non può essere molto convincente. Dunque: cercare il profondo contatto con Dio da dare testimonianza a partire da esso. E una simile testimonianza che rende Dio visibile, deve essere sempre anche una testimonianza di vita, nella quale emerge questo: chi si orienta a Dio, vive anche nel modo giusto, in rapporto al prossimo, alla società, ai grandi problemi del nostro tempo.

Si ha l’impressione che lo slogan “Cristo sì, chiesa no” si sia acutizzato in “Gesù sì, Dio no”. Come la questione di Dio può essere posta in modo nuovo?

È indubbio che la questione di Dio debba essere nuovamente posta. Abbiamo smarrito proprio questo: che dalla presenza di Dio dipende tutto. Anche delle teologie sono partite da questo dato di fatto, dicendo: «Ci sono molti atei e agnostici, dobbiamo vedere come poterci arrangiare senza Dio». Da qui è nata una teologia del come se Dio non ci fosse. Dio non è più considerato Dio quando in fondo vi si può rinunciare. Dobbiamo riconoscere nuovamente che non funziona più nulla nella vita umana se Dio diviene assente. Dobbiamo innanzitutto imparare a divenire consapevoli personalmente, solo allora potremo trasmetterlo in modo comprensibile anche agli altri. Naturalmente la questione di Dio non è una questione semplicemente teorica. Possiamo immaginarci Dio intellettualmente, ma un Dio solo “pensato” non è una forza. Chi vuole avvicinarsi a Dio deve prendere su di sé l’esperimento della vita con Dio. La chiesa antica lo ha fatto introducendo il catecumenato, provando in una società corrotta una vita sulla base dei criteri di Dio e in questo modo rendendo Dio nuovamente visibile. Così, credo, che anche oggi sia importante che creiamo oasi simili, isole simili nelle quali si osa il comune esperimento della vita secondo i criteri di Dio. Allora a uno gli si apre il cuore, gli si aprono gli occhi. Allora riconosciamo che è ragionevole crederci, che dietro la ragione di questo mondo sta la ragione creatrice, che è al contempo amore e ci mostra i giusti criteri.

Al più tardi dall’autunno scorso la questione di Dio ha acquisito una dimensione nuova: il fanatismo religioso è capace di azioni che generano sconcerto. La fede religiosa è conciliabile con il fanatismo?

Non è conciliabile, anche se di fatto naturalmente spesso nella storia si è manifestata e si manifesta come fanatismo. Ci si accorge di quanto sia importante, sulla strada che porta a Dio, non fermarsi a metà strada, per così dire appropriarsene. Come succede proprio nel fanatismo, dove per così dire ci si atteggia a Dio che tiene in mano il giudizio universale. Il più sicuro argine contro un abuso simile dell’idea di Dio, con il quale l’apparente fede in Dio tanto più diviene distruttiva, consiste, credo, nel guardare al Dio che si è mostrato egli stesso nel Cristo crocifisso. Chi guarda a quel Dio che si lascia uccidere per noi, non può più arrivare a idee fanatiche. Egli ha percorso il cammino verso l’intera immagine di Dio. Assumere lui come criterio e vedere così il vero volto di Dio che esclude il fanatismo e presunzione: è questa credo, l’indicazione che dobbiamo dare a questo nostro tempo: guardate al Dio che si è mostrato, così impariamo a vivere e così impariamo, a creare pace in questo mondo.

La pubblicazione del documento Dominus Iesus ha suscitato grande clamore e molti hanno tacciato la chiesa di intolleranza e assolutismo. Qual è il significato autentico di questo documento?

Il coraggio di ammettere che è possibile: Dio ha mostrato sé stesso. Non noi lo abbiamo immaginato, non noi, perché siamo tanto bravi, lo abbiamo trovato. Lui si è mostrato. Sarebbe falsa umiltà se dicessimo a noi stessi: ma non è possibile, questo non lo puoi fare, o Dio. Ma accogliere questo Dio che si mostra, accoglierlo in umiltà, e così non fare agire la falsa umiltà dicendo: ma non ne siamo assolutamente certi. Perché questo significherebbe ritirarsi nel non vincolante. Se diciamo: tutto è ugualmente vero, allora tutto è anche ugualmente falso. Quello che alla fine rimane è: ognuno faccia come crede. In questo senso l’accogliere una verità che si mostra che è veramente tale, non è fanatismo contro l’altro, bensì limitazione della mio volere e invece un criterio al quale mi sottometto e attraverso il quale lascio anche entrare luce nel mondo e aiuto a vivere nel modo giusto.

Alcuni pensano che l’ecumenismo non possa più andare avanti così. Cosa consigla agli ecumenici? Ci può ancora essere unità della chiesa senza pesanti sofferenze da parte della chiese?

Le sofferenze fanno parte del processo verso l’unità. Questo vale già per ogni vita personale. Diciamo questo: ogni matrimonio può rimanere stabile per tutta la vita solo se entrambe le parti sono anche pronte alla sofferenza, in questo modo imparando ad amarsi più profondamente. E così questi processi di unificazioni, nei quali è necessario elaborare una storia di secoli, non possono svolgersi senza sofferenza. Direi questo: la pazienza è necessaria anche nel senso che non approcciamo l’ecumenismo con calcoli di successo o addirittura con previsioni temporali. Se lo trattiamo come una trattativa politica, nella quale in un tempo determinato è necessario si giunga a qualcosa, allora abbiamo valutato in modo completamente errato l’ordine di grandezza in questione. Perché qui è in gioco tutta la profondità e l’altezza dell’esistenza umana. Allora abbiamo soprattutto “tentato” Dio, perché in una analisi solo lui può creare l’unità della chiesa. Quello che faremmo sarebbe un risultato politico e non la chiesa di Dio. In questo senso è importante non essere condizionati dall’obbligo di avere successo e, nonostante non possiamo calcolare nulla sapere questo: agiamo conformemente al mandato di Cristo solo se sempre rimaniamo insieme in una lotta amorevole e decisa.


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In primavera uscirà un nuovo volume, dedicato a tutte le interviste rilasciate da Joseph Ratzinger sia prima che dopo la sua elezione al soglio pontificio. Questa che pubblichiamo, inedita in italiano, è una parte di un’intervista all’allora cardinale Joseph Ratzinger, al tempo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, rilasciata a Radio Vatikan nel 2002.

Traduzione di Pierluca Azzaro.

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