Antonio Russo collaborava con Radio Radicale documentando le guerre dimenticate: Congo, Algeria, Kosovo. Luoghi dove intere minoranze etniche vengono sacrificate sull’altare degli interessi economici e delle ambizioni di potere.

Dal dicembre 1999 stava seguendo il conflitto ceceno dalla Georgia. I confini russi, infatti, erano blindati, anche se aveva tentato più volte di forzarli. Quella è stata la sua ultima missione. Il 16 ottobre 2000 è stato trovato in una stradina di campagna nel circondario di Tbilisi con il torace sfondato. Il ritrovamento è avvenuto in modo del tutto casuale: un ex poliziotto ha segnalato il corpo ai colleghi di un posto di blocco stradale a 800 metri di distanza.

Il materiale scomparso

Il mistero di questo assassinio ruota intorno a sei cassette Vhs, un cd-rom, un computer, un telefono satellitare e una macchina fotografica. Il materiale è stato preso, insieme ad Antonio, nella notte tra il 14 e il 15 ottobre dall’appartamento dove viveva a Tbilisi, lungo una strada tranquilla che taglia il centralissimo viale Rustaveli. La mattina del 15 un paio di amici, David Khoshtaria e Giorgi Mekhrishvili, ne hanno denunciato la scomparsa. L’abitazione era stata messa sottosopra ma la polizia, inspiegabilmente, ha ritardato le ricerche.

Nulla di quel materiale trafugato è stato mai ritrovato. Antonio aveva raccolto ampia documentazione sulle atrocità compiute dai russi. In particolare, durante un congresso internazionale tenuto nella capitale georgiana venti giorni prima di essere ucciso, aveva denunciato l’uso di armi proibite sui civili ceceni, specificandone la tipologia: mine antiuomo, ordigni a grappolo, bombe vacuum, gas nervini. «Per i russi è una sorta di laboratorio di verifica di tutte le armi da loro prodotte» aveva riportato nelle corrispondenze per la radio.

Il depistaggio

Nel corso della rogatoria internazionale del luglio 2001 il funzionario a capo delle indagini georgiane, David Minashvili, ha rivelato agli investigatori italiani, Leonardo Biagioli e Lorenzo Trauzzi, di aver recuperato l’intero materiale. Non solo, ha aggiunto che la delicata transazione avrebbe consentito di raggiungere «ulteriori importanti risultati».

Gli inquirenti italiani hanno trascurato la testimonianza di Minashvili fino al giugno 2003, quando hanno ritenuto di doverne chiedere conto alla procura georgiana. Nel frattempo Minashvili è stato rimosso e non ha lasciato indicazioni al suo successore. Quattro mesi più tardi la procura ha smentito tutto, spiegando di non essere mai rientrata in possesso del materiale rubato. Il sospetto è che possa esserci un legame tra la sostituzione di chi si occupava delle indagini e la dichiarazione ufficiale della procura.

Nel luglio 2001 però, un altro fatto sembra confermare il ritrovamento di quanto trafugato. Gli inquirenti georgiani consegnano a quelli italiani due videocassette che sostengono di aver rinvenuto durante un sopralluogo in casa di Antonio, una su un tavolino in soggiorno, l’altra di fianco al televisore. Contengono prove dell’utilizzo da parte dei russi di armi non convenzionali sulla popolazione cecena. Ma non sono inedite, Antonio le aveva già mostrate in un paio di conferenze. E sicuramente non contengono le sequenze più impressionanti, ovvero quelle ricevute da fonti non accertate di cui ha parlato con la madre in una telefonata concitata all’inizio di ottobre. È a lei che aveva manifestato la ferma intenzione di consegnare tutto al tribunale dell’Aia.

La manipolazione

È impossibile che nell’abitazione di Antonio siano state rinvenute cassette contenenti immagini di guerra. Perché, come riporta il verbale del sopralluogo, indicandone la medesima collocazione, le due cassette Vhs che erano in bella vista la mattina del 15, contenevano filmati di storia e arte georgiana (una delle due reca il titolo “The treasures of Georgia”) e sono state trascurate dagli inquirenti in quanto prive di utilità per le indagini. Lo testimoniano anche Khoshtaria e Mekhrishvili che erano con Antonio al museo nazionale quando lui le ha comprate.

Ma il punto è un altro. Se le due cassette con i video della guerra sono finite nelle mani degli inquirenti significa che in qualche modo sono state ritrovate. La manipolazione delle informazioni sembra evidente, perché all’appello mancano altre quattro videocassette e la documentazione più rilevante, con tutta probabilità, è stata omessa. Le cassette possono essere parte del materiale recuperato da Minashvili, oppure copie estratte dall’archivio di Surho Idiev, responsabile dell’agenzia d’informazione cecena Kibe che operava a Tbilisi in modo indipendente malgrado controlli e pressioni interne.

Infatti, seppur amministrativamente autonoma, la Georgia era all’epoca ancora legata alla Federazione russa, non solo economicamente. Surho è stata sicuramente la principale fonte di Antonio, che raccoglieva notizie dirette sull’evolversi del conflitto anche da profughi e guerriglieri, recandosi abitualmente nel Pankisi, area a 100 chilometri dalla capitale.

Nelle sue deposizioni Surho ha confermato di aver girato ad Antonio sei cassette e un cd-rom contenenti prove concrete dei crimini e delle responsabilità di alti ufficiali russi. Oggi ridimensiona il materiale definendolo non esclusivo né così compromettente da aver messo il giornalista italiano in pericolo, e aggiunge che anche se divulgato, i contenuti non avrebbero inferto un colpo al potere di Mosca.

Le sue dichiarazioni, però, sono state sconfessate dagli amici comuni Khoshtaria e Mekhrishvili, i quali hanno detto che Surho temeva per la vita di Antonio proprio a causa di quanto gli aveva consegnato e si era raccomandato con loro di seguirlo come angeli custodi.

Dunque non si tratta di documenti “standard”, come li definisce chi ne vuole ridimensionare il valore. Operazione che viene condotta con metodo tanto dagli inquirenti tanto da chi, a vario titolo, è intervenuto nella vicenda, col risultato di allontanare la verità. Sono stati formulati almeno una decina di moventi: dal sequestro a scopo di rapina finito male all’incidente stradale; fino al delitto passionale; allo sgarro a un capo clan punito per questioni di onore; alla conoscenza, tramite il rapporto con i servizi segreti, di commistioni tra la malavita e i vertici del governo; alla scoperta casuale di traffici sugli aiuti umanitari; al commercio d’organi umani addirittura prelevati da corpi vivi.

A ogni movente corrisponde, ovviamente, un responsabile: i servizi russi, quelli georgiani, la delinquenza comune, il crimine organizzato, un delatore.

Le ambiguità delle indagini

La doppia inchiesta giudiziaria aperta in Georgia e a Roma non ha condotto a nulla. Anche se sono stati soprattutto gli inquirenti di Tbilisi a complicare con informazioni ambigue e tentativi di occultamento il percorso delle indagini. L’autopsia non ha rilevato un significativo trauma cranico che potrebbe illuminare la dinamica del sequestro, non ha stabilito l’orario della morte e ha attribuito lo schiacciamento toracico alla compressione fra due piani resistenti, come tra un veicolo e un muro. Una ricostruzione incompatibile, però, con l’assenza di lesioni alla colonna vertebrale certificata dal medico legale italiano che ha ripetuto l’esame.

Mancano testimonianze ed elementi cruciali come la deposizione degli agenti in servizio al posto di blocco stradale la notte precedente al ritrovamento del cadavere, i risultati dei rilievi eseguiti in casa dalla scientifica e soprattutto i tabulati telefonici, la cui assenza preclude la conoscenza degli ultimi contatti di Antonio.

Gli italiani, di fronte alle evidenti omissioni, non hanno esercitato pressioni né portato avanti particolari iniziative. L’unica è stata quella di indicare un indagato improbabile, peraltro l’unico: un documentarista olandese ospitato da Antonio nell’ultimo periodo che, ipso facto o quasi, ha dimostrato con prove inconfutabili la sua estraneità all’omicidio. Che resta una ferita aperta nella democrazia italiana.

L’inchiesta di Jacopo Ottenga Barattucci è una delle cinque finaliste della decima edizione del premio Roberto Morrione.

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