Cosa accade quando due diverse chiese reclamano la supremazia spirituale e politica su un paese? Cosa accade quando quel paese è l’Ucraina e in gioco c’è la percezione della sua autocoscienza e del suo posto nel mondo e nella storia? Da una parte la chiesa ortodossa ucraina del patriarcato di Mosca sotto l’autorità del patriarca Kirill. Questa chiesa, come ha fatto di recente, ha sempre sottolineato l’unità spirituale dei due popoli. Il loro necessario destino comune. Dall’altra parte una nuova chiesa, autonoma e indipendente da Mosca, nata con l’obiettivo di salvare l’anima dell’Ucraina dai tentacoli di Mosca.

Sul riconoscimento dell’autocefalia della chiesa ortodossa dell’Ucraina, ovvero sulla sua indipendenza da Mosca, si è giocata una delle partite geopolitiche più importanti degli ultimi anni, che ha visto confrontarsi attori nazionali e internazionali. Una partita in cui l’autonomia della sfera religiosa rispetto a quella politica è passata, spesso e volentieri, in secondo piano.

Sul corpo della chiesa si sono confrontate le ambizioni, molto mondane, di numerosi attori politici ucraini che hanno scommesso nel grimaldello dell’autocefalia per sabotare l’operazione “mondo russo” (Russkj mir) con cui Kirill e Mosca provavano a rilanciare sull’unità di destino dei popoli della Rus’: non c’è salvezza teologica e politica fuori da Mosca. Tutto dentro Mosca, nulla fuori da Mosca.

A questo schema il presidente ucraino Petro Poroshenko (in carica dal giugno 2014 al maggio 2019) opponeva lo slogan «Esercito, lingua e fede». È un dibattito ormai aperto da anni, difficile da sintetizzare, ma la storia può venirci in soccorso per comprendere la centralità dell’evento.

Verso la libertà religiosa

Dopo i fatti del 1917, l’esecutivo della Repubblica popolare Ucraina prova nel gennaio del 1919 a raggiungere il risultato mediante l’approvazione di una legge «sull’autocefalia della chiesa ucraina», ma l’annessione allo stato sovietico fa cadere ogni speranza. Negli anni successivi ci sono stati ulteriori tentativi, ma andati tutti a vuoto.

Dopo la caduta dell’Unione sovietica affiorano in superficie le fratture, già emerse nel giugno 1990, che portano all’elezione a patriarca di Mosca di Aleksij (Ridiger), ex presunto agente del Kgb. In quell’elezione arriva secondo Filaret, che rimane metropolita di Kiev (quindi ancora sotto il patriarcato di Mosca) e successivamente tenta in tutti i modi di ottenere l’autocefalia da Costantinopoli. Tanto che il suo sforzo gli costerà la scomunica da Mosca e la riduzione allo stato laicale. Non contento Filaret si fa eleggere patriarca dai vescovi ucraini a lui fedeli, anche se non viene riconosciuto da Costantinopoli.

La svolta decisiva per l’autocefalia comincia nel post-Majdan, quando Poroshenko è ormai deciso a rompere con Mosca. Tutta l’élite politica e culturale del paese avalla la richiesta di indipendenza della chiesa ucraina. Facevano eccezione, non a caso, le province filorusse di Donetsk e Lugansk.

Nonostante i tentativi russi di bloccare il treno in corsa non ci sono state possibilità per fermarsi. Il Concilio di unificazione del 15 dicembre 2018 sancisce la concessione dell’indipendenza a Kiev. Il 6 gennaio del 2019, vigilia del Natale ortodosso, dopo secoli di litigi, sarebbe poi avvenuta la consegna del Tomos che ha formalizzato il divorzio tra il patriarcato di Mosca e la chiesa ortodossa dell’Ucraina. In anticipo rispetto alle sanzioni di questi giorni, Kirill aveva isolato Mosca. Il nazionalismo ortodosso ucraino celebrava così il successo di Poroshenko che consentiva la definitiva partenza del motore religioso dell’autocoscienza nazionale. Nel comunicato stampa rilasciato dal dipartimento di stato degli Stati Uniti il 10 gennaio (quattro giorni dopo), Michael Pompeo si congratula con gli ucraini sottolineando come fosse necessario garantire la libertà religiosa degli ucraini «senza influenze esterne».

Il precedente

Come ha spiegato su Domani Lorenzo Prezzi, fondamentale in questa partita è stato anche lo scontro che ha fatto seguito al fallimento del Concilio di Creta del 2016. In quell’occasione quattro delle quattordici chiese storiche dell’ortodossia mondiale non hanno partecipato (inclusi i russi). Questo atteggiamento ha contribuito a convincere il patriarca di Costantinopoli della «volontà moscovita di assumersi la centralità dell’ortodossia mondiale in ragione della sua potenza (150 milioni di fedeli su 250) e lo spinge a concedere l’autocefalia ai dissidenti ortodossi ucraini».

Davanti al fatto compiuto e alla vittoria degli ucraini, Kirill decide di rompere la comunione eucaristica con Costantinopoli e cominciare il bombardamento retorico contro il patriarca. All’epoca il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov critica apertamente le «provocazioni» del patriarca Bartolomeo orchestrate con il «supporto aperto e diretto» di Washington. Allo stesso tempo Kirill si spende nel criticare i diplomatici statunitensi che avrebbero avuto come «obiettivo politico concreto» quello di «cancellare l’ultima connessione» tra russi e ucraini.

La storia dell’autocefalia ucraina è un caso di studio da manuale dei fortissimi legami tra politica, religione e geopolitica. Non appare (e non è stata) casuale, nel dicembre 2018, la presenza di Petro Poroshenko nella cattedrale di Santa Sofia il giorno dell’elezione di Epifanyi (Dumenko), allora trentanovenne, a nuovo primate della nuova chiesa ucraina autocefala. A Poroshenko era stata riservata la cattedra “imperiale” accanto all’altare. Sedevano con lui la famiglia, i figli in costume nazionale ucraino, e numerosi altri politici ucraini. Era lui, in un paradossale scambio di vesti, il padrino laico della nuova chiesa. Una chiesa, come ebbe a dire «senza Putin e senza Kirill».

Tra i grandi sconfitti di quei giorni anche la diplomazia vaticana. In molti ricordano l’intervento di papa Francesco del 30 maggio del 2018 quando, nel ricevere una delegazione russa guidata dal metropolita Ilarion (Alfeev), aveva utilizzato parole nette: «Alla vostra presenza, e specialmente di fronte a voi, caro fratello, vorrei ancora una volta sottolineare che la chiesa cattolica non permetterà mai che da parte sua si manifestino atti che provochino delle divisioni. Noi questo non lo permetteremo, io questo non lo voglio. In Russia esiste soltanto un patriarcato, il vostro, e noi non ne riconosceremo un altro».

Nei giorni dell’invasione

Nel discorso dello scorso 21 febbraio Vladimir Putin è stato esplicito nell’argomentare le ragioni secondo cui l’Ucraina sarebbe parte integrante del «Russkiy mir» (“mondo russo”). Una delle ragioni riguarda il fattore religioso e la necessaria protezione che la Russia dovrebbe offrire agli ortodossi legati al patriarcato di Mosca che sarebbero repressi da Kiev.

Date le premesse, Poroshenko avrebbe forse potuto sperare in un esito elettorale migliore. Invece il risultato delle elezioni del 2019 non ha premiato tutti gli sforzi dell’ex presidente, risultato sconfitto da Zelensky. Un presidente, Zelensky, che durante la campagna elettorale e nei suoi primi anni di mandato non ha mostrato alcuna attenzione per la dimensione pubblica della religione. Non sorprende che, in questo contesto scismatico, il presidente di origini ebraiche, ma profondamente secolare, di un paese che Mosca vede egemonizzato dai “nazisti”, possa apparire a numerosi membri dell’élite di Mosca come la reincarnazione dell’anticristo. Come se non bastassero le divisioni già esistenti, le parole del metropolita Onufrij (Berezovsky), che guida la parte della chiesa ortodossa ancora fedele a Mosca, hanno contribuito a rendere ancora più esplicito il tilt geopolitico del Cremlino e del patriarcato: «Una guerra simile non ha giustificazione né per Dio né per l’uomo». Ovviamente molto più esplicito il primate della chiesa ortodossa d’Ucraina ora indipendente.

Per Epifanij: «Un nostro comune compito è respingere il nemico, difendere la patria, il nostro futuro dalla tirannia dell’aggressore». Un comunicato dello scorso 8 marzo del Consiglio ucraino delle chiese e delle organizzazioni religiose ha messo fine a ogni dubbio. Mentre Kirill giustifica la guerra di Putin, le organizzazioni che compongono il Consiglio (tra cui la chiesa autocefala ucraina e la chiesa ancora fedele a Mosca) nel condannare la guerra dell’«invasore russo» chiedevano alla «Nato, alle Nazioni unite, all’Unione europea, all’Osce e al Consiglio d’Europa di adottare misure urgenti per l’introduzione di una no fly zone e di rifornire l’esercito ucraino di moderni sistemi di difesa». La religione anticiperà ancora una volta la politica?

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